mercoledì 26 novembre 2014

Elogio del di-vertimento.


Come già ho avuto moco di affermare, contro una certa dominante critica, sono convinto che la narrativa di genere sia la matrice di quella "alta", "colta" o "mainstream" che dir si voglia, e non il contrario.
In altri termini non credo che la "triviallitteratur" sia un sottoprodotto semplificato e massificato di temi, personaggi e situazioni elaborate in ambienti più raffinati, un modo insomma di fornire anche alla servitù emozioni e commozioni pensate in origine per i padroni.
Invece è proprio lei che assolve meglio alla funzione principe dell'arte, quel "di-vertimento" connaturato ai generi da cui si sviluppano poi i prodotti più alti dello spirito. Perché è proprio il di-vertimento il più nobile di questi.
Mi spiego, facendo riferimento alla radice etimologica del termine latino, "de-vertere", portare, spingere fuori, allontanare dalla via prefissata. in senso figurato anche disorientare, sconvolgere. modificare il quadro delle attese, l'orizzonte degli eventi.
Ora è esattamente questa la funzione dell'arte, in ogni sua espressione: de-vertere l'animo del fruitore dal nucleo di conoscenze e certezze da cui è avvolto, prenderlo per mano e trascinarlo fuori in una sorta di cavalcata senza meta apparente. A patto però che al termine del galoppo non ci si limiti a riaccompagnarlo al punto esatto da cui si era partiti, ma lo si lasci invece da un'altra parte, de-vertito, appunto, ma più maturo e consapevole.
E' questo che distingue una grande opera di genere, come "L'Isola del Tesoro", da tante mediocri imitazioni. Chi da ragazzo è salito sull'Hispaniola, ha toccato le coste dell'isola e poi si è addentrato nelle sue foreste in compagnia di Ben Gunn e Silver John, non è mai più tornato al punto di partenza. E ancora da qualche altra
parte, alla ricerca insaziabile di altre isole e altri tesori.

sabato 11 ottobre 2014

La sindone del Diavolo

Allora, dal 23 ottobre potrete deliziarvi con una nuova storia del Sommo Poeta. Tenebre, diaboliche visioni e miasmi lagunari aspettano Dante quando prende alloggio nella più strana delle locande: un luogo che appare solo di notte e scompare di giorno come una morgana.

mercoledì 10 settembre 2014

I dieci libri che hanno cambiato me, non il mondo.


Dopo ripetute taggature per elencare i miei romanzi du coeur, esaurite le finte distrazioni e le scuse, mi arrendo. E allora ecco qui:

1- La mille e una Notte, letto a sei anni nella splendida edizione Nerbini con le figure dei Geni e delle odalische comme il faut. Poi non sono andato mai più a est di Costantinopoli, per paura di scoprire che l'Oriente non fosse così.
2 e 3 - 20000 Leghe sotto i Mari, letto nelle edizioni integrali di Salani, saltando a piè pari tutti i capitoli di divulgazione scientifica ma innamorandomi della fantascienza. Insieme con Il ciclo della Jungla di Salgari responsabile del mio successivo amore per le storie di avventure dissennate.
4 e 5 - Delitto e Castigo e La cognizione del Dolore, che ognuno a modo suo mi illuminarono sulle miserie della condizione umana.
6- La ricerca del tempo perduto, biblioteca, labirinto e cattedrale della narrativa moderna. Dopo di che ogni volta che sento un poveretto dire "show don't tell" mi vien che ridere.
7- Il castello dei destini incrociati, per come Ars combinatoria e logica modale possono essere utilizzate nel racconto.
8- Cent'anni di solitudine, per le ultime quindici pagine.
9- La montagna incantata e il Doktor Faustus, per la loro grande lezione su come decadere con stile e gloria.
10- E infine last but not least, Così parlò Zarathustra, che non è propriamente un romanzo, ma per certi aspetti anche lo è. Letto a quattordici anni capendoci forse un quarto, ogni tanto ci rimetto mano sperando di comprendere anche il resto.

martedì 9 settembre 2014

Canto d'amore per HORROR.


Devo aver visto per la prima volta la pubblicità di Horror su Linus. Almeno mi sembra, anche se non potrei giurarlo, o forse da qualche altra parte.Allora leggevo tutti i fumetti su cui riuscivo a mettere le mani, ma Linus mi sembrava la più bella rivista del mondo, in quello che mi sembrava il più bell’anno del mondo.

Linus era quasi perfetta, tranne che per un particolare: doveva essere fatta da gente troppo seria. Perché era piena di roba da ridere, come tutte le cose fatte da gente seria. Ma quando si è adolescenti si ha una terribile necessità di prendersi sul serio, si cerca il dramma e lo spasimo, ci si vuole confrontare con il buio del mondo. E poi si vogliono avventure pericolose, e i razzi scagliati verso lo spazio. E donne affascinanti, quelle che poi cerchi e ti ricordi per tutta la vita. Io ero innamorato delle donnine fantastiche di Milton Caniff, o quelle di Robbins. Anche per questo avevo cominciato a leggere Sgt. Kirk, che era pure più grande, nel formato. Sì, Sgt Kirk era proprio uno splendore, con quel suo profumo d’oriente, gli uomini che erano uomini e le donne che erano donne, proprio con tutti gli attributi giusti. Però ero incerto su Pratt, le sue tavole avevano un taglio espressionista diverso dagli americani, invece di ombreggiare con i retini lui tirava giù quei segnacci d’inchiostro, non avrei giurato che sapesse proprio disegnare tanto bene. Ma sul Sgt. Kirk dicevano tutti che era un genio, e forse era vero dopo tutto. Almeno per le sue storie. L’addio di Pandora a Corto, più bello della fine di Casablanca.

E poi c’era Battaglia, quello sì che era il massimo, incredibile, il mio idolo. Il maestro, il Raffaello dei fumetti, se Raymond era il Michelangelo. L’unico a tentare la strada del terrore. Un orrore gotico, letterario, pieno di allusioni, delicato. Tutto costruito con mezze tinte, con quello sfumato che annebbiava le immagini in un crepuscolo d’orrore. Ve la ricordate la Caduta della casa Usher? Oppure Re Peste? Con i due marinai buffi che prima sembrano uscito da una pagina del Corriere dei Piccoli, e poi, verso la fine, diventano spaventosi, in mezzo a quella galleria di mostri da baraccone del Luna Park, come pupazzi di quelle straordinarie case stregate che adesso non ci sono più. E invece sono orrendi, peggio che nel racconto di Poe. Battaglia era il grande maestro del grottesco, toccava le corde dell’0rrore segreto, quello vero. Senza schizzi di sangue, senza zanne e tentacoli. Il vero allievo di Poe. L’orrore non viene dalla Germania ma dal profondo dell’anima.
Ne ero convinto anch’io, ero convinto di qualunque cosa avesse detto Poe. Lo conoscevo a memoria. Anche il Colloquio di Monos e Una, che per trovarlo dovevi rapinare la Biblioteca Nazionale. Ma nei fumetti niente.

L’orrore era proprio il punto debole di tutte le pubblicazioni a fumetti di quel tempo. Io ero un innamorato dell’orrore, oltre che delle donnine di Caniff. Ma sembrava che interessasse soltanto me. Ero appena sopravvissuto al sano realismo manzoniano, nutrendo la mia resistenza con forti dosi di Hoffmann. Mi ero sorbito anche tutto Dracula, quello scritto, il romanzo. Che avremo letto in tre, in tutta Italia. Perché non c’era una rivista dell’orrore a fumetti decente? E invece il mondo sembrava imbevuto di orrore. Come potevo scappavo a via Veneto, a rovistare nella pila dei fumetti americani che l’edicolante nascondeva da un lato del tendone, a disposizione dei figli fortunati degli addetti all’ambasciata. Lì c’era il favoloso Creepy, e gli albi della Gold Key, con le storie di paura. Avevo imparato l’inglese solo per quello, e cercavo di leggerne il più possibile, prima che l’edicolante se ne accorgesse e uscisse infuriato a rimettere in ordine il caos in cui avevo gettato gli albi, senza comperare mai rigorosamente nulla, proprio perché avrei voluto avere tutto.

Poi un giorno vedo quella pubblicità, Horror, mensile a fumetti di terrore magia incubo mistero. Nell’affiche, se non ricordo male, c’era la faccia del solito vampiro stralunato con in testa il cilindro e i denti da squalo, come in Midnight vampires. Oppure era un’altra cosa, e faccio confusione. Ma qualunque cosa fosse fu un tuffo al cuore. Toccavo il cielo. Finalmente anche in Italia sarebbero usciti quei fumetti su cui lasciavo gli occhi a via Veneto, la fine della solitudine, c‘era qualcun altro come me su questo pianeta, Robinson e una vela all’orizzonte. La rivista era diretta da Castelli e Carpi. Non avevo idea di chi fosse Castelli, allora, ma di Pier Carpi avevo letto la storia di Cagliostro, e un libro sulla magia che devo avere ancora in casa, nascosto tra quelli che non leggerò più. Avete notato che c’è uno scaffale così in ogni libreria? Perché lì vanno a finire i libri che non si rileggerano perché non serve. Come Delitto e castigo, come la Recherche. Come Weird Tales. Perché sono finiti nei nostri cromosomi, nei neuroni, nell’ipotalamo o insomma dovunque sia quel pezzetto di noi che ci fa come siamo, che poi ci portiamo dietro per sempre. Pier Carpi aveva anche curato un’antologia dei racconti di Poe, con la copertina di cartone, da poveri, e le illustrazioni di uno che allora non conoscevo, un certo Rostagno, che disegnava con un tratto neoliberty fluido, che in certe movenze ricordava qualcosa di Crepax, con quelle sue figure allungate, divinamente scollacciate, che non guastava affatto per uno dei miei anni. Anche se Crepax era più secco nel tratto, più fotografico. E poi era uno dei re di Linus, lo osannava OdB e pure Eco. Ogni tavola di Crepax ribolliva di particolari, un mazzo di chiavi su un tavolo con tutte le chiavi, e se la macchina fotografica era una Nikon sopra c’era scritto proprio così, Nikon. Invece il disegno di Rostagno era più sognante, sembrava uscito da una rivista di moda allucinata, le sue donne diverse dalle fotomodelle sonnambule di Valentina. Simili alle ragazzine in minigonna che giravano per le strade vere. Seminude ma sempre un passo al di qua di quella linea feticistica che Crepax passava alla grande, quasi castigate, nella migliore tradizione morale del racconto dell’orrore.

Perché il terrore è forse la più virtuosa delle emozioni, non credete? Nel terrore e nel mistero si è rifugiata la grande tradizione moralistica di Pascal, dopo il tradimento dei narratori borghesi di due secoli fa. Solo nelle storie dell’orrore il bene e il male sono così nettamente, ossessivamente distinte. Così riconoscibili. Anche quando cercano di fondersi, come in Jeckill e Hyde, non ci riescono e uno finisce con l’ammazzare l’altro. Allora non mi era molto chiaro, ma qualcosa intuivo.
E intanto aspettavo Horror. Come sarebbe stata fatta? Il formato, le pagine. Con i colori? Avrebbero pubblicato finalmente The Twilight Zone, ne ero sicuro. Non potevano non pensarci.
Un gran fantasticare nell’attesa, perché la rivista sembrava essere sparita prima ancora di nascere. Attesi con ansia per tutto il mese, e poi ancora per una settimana e più.
Horror continuava a non esistere. Allora avevo scoperto che i periodici arrivavano per primi nelle edicole delle stazioni, per qualche mistero della distribuzione. E così andavo tutti i giorni alla stazione, con una bicicletta Bianchi da pizzardone, come un poveraccio dei film di De Sica, che allora ancora circolavano, il lunedì alla televisione.
Alla stazione cominciavano già a guardarmi con sospetto, lo sentivo. Quando finalmente trovai il numero uno. Era lui. La copertina perfetta, i vampiri in volo, il mostro sullo sfondo, la ragazza terrorizzata e svestita al punto giusto.
Era proprio Rostagno che disegnava la copertina, ad ogni numero, ed erano davvero copertine straordinarie, bastavano da sole a farsi comprare. E poi c’era Zio Boris, che non mi faceva ridere per niente e anzi mi mandava in bestia, perché mi sembrava solo un cretino, e la prova lampante che gli italiani erano negati per il formato strip, con quelle battutine fesse. Allora ero giovane e serissimo, mi pare di averlo detto. E mi sembrava impossibile che fossero proprio di Castelli, che poi sullo stesso numero aveva scritto il soggetto dell’Importanza di chiamarsi Felice, una storia che pareva uscita da un telefilm di Rod Serling.
Decisi subito di scrivere al direttore: se proprio voleva fare la parodia dell’orrore, che senso c’era a parodiare Charles Addams, che era già una parodia di suo? Allora ero troppo piccolo per afferrare le sottigliezze della metaparodia, mi sembrava soltanto inutile. Però il resto mi riempiva di idee. Così si poteva scrivere e disegnare il terrore anche in Italia.

Mandai una letterina alla redazione, proponendo una mia sceneggiatura. Visto che avevano proprio deciso di infliggermi queste storie autarchiche, allora potevano anche pubblicare una delle mie. Mi risposero, abbastanza gentilmente, ma senza darmi troppe speranze. Ci rimasi un po’ male, devo dirlo, ma a quell’età l’ego non è ancora ipertrofico come adesso e quindi mi ripromisi di ritentare. E poi avevo una idea da suggerire, perché non facevano fare qualcosa a Pratt? Perché non gli commissionavano qualcosa? E soprattutto, quando avrebbero portato in Italia l’orrore degli albi Dell?

Aspettavo speranzoso. Mi ci vollero almeno tre o quattro numeri per capire che quelli non ne avevano alcuna intenzione, che proprio si erano intestarditi con i fumettari italiani, che dovevano essere tipi da osannare pure gli spaghetti-westwern di Sartana. Io mi sentivo molto più avanzato e internazionale. Ma intanto leggevo su ogni numero quelle storie. Ed erano storie diverse. Senza l’impianto tecnologico, urbano avanzato che caratterizzava le americane. Non c’erano quasi automobili, pochi treni. L’aereo secondo quelli di Horror dovevano ancora inventarlo. Erano storie del mondo nostro, l’Europa, ma un’Europa della memoria, nostalgica. Erano storie con un impianto letterario, diverse da quelle americane, davvero. Ma diverse in cosa? Probabilmente nella sceneggiatura, un taglio diverso nelle inquadrature. Un punto di vista eccentrico. Come in quel tempo la sceneggiatura dei film di Bava era diversa da quelli di Corman, la scelta dei colori, le facce degli attori. Doveva essere diverso anche il makeup, le ciglia delle donne erano spaventosamente finte da entrambe le parti dell’Atlantico, ma dovevano usare roba diversa. Horror era piena di cinema, leggevo gli articoli su cose bellissime, e poi non trovavo i film di cui quei perditempo riempivano le pagine, l’unica videoteca era la Rai, e quelli magari si ammazzavano piuttosto che passare un film dell’orrore. Smisero pure di trasmettere Ai confini della realtà, per non turbarci i sonni. Però su Horror almeno una cosa bella c’era, una trasposizione di Nosferatu. Nosferatu era un ricordo magico, lo avevano trasmesso per sbaglio in un ciclo dedicato al cinema muto, sempre alla Rai. E adesso era lì sulla carta. Un tuffo al cuore, quando vidi la prima pagina, grande, una rielaborazione del manifesto originale, splendida con i suoi mezzi toni, la mano di Battaglia, il mio idolo. Però non era lui, ma un certo Gianni Grugef, bravo ma un furbastro.

Stavolta gli avrei scritto davvero al direttore, per protestare. Ma come ti viene in mente di riprendere i fotogrammi del film e lucidarli? Va bene l’omaggio a Murnau, ma questo era troppo. Ero sicuro che avessero ricalcato le immagini, magari da qualche libro di cinema. Lì non facevano che parlare di cinema, e da qualche parte avranno trovato il libro, ne ero sicuro.
Però la carrozza che porta il protagonista al castello non era proprio la stessa, nel film è un carro da morto spagnolesco, da funerale con Totò, tutta una decorazione intorno di parati funebri, e anche le facce dei personaggi non erano proprio uguali. Naturalmente non approvavo nessuna scelta, né dello sceneggiatore né del disegnatore. E poi passi per Nina, che almeno aveva conservato un aspetto da Ligeia, ma far diventare l’eroe una specie di pistolero, con tanto di frangetta, no, questo non era proprio possibile. Magari Grugef sarà stato anche bravo, anzi lo era proprio, lo dovevo ammettere. Stava un miglio avanti a quei fumettari neri che imperversavano., Diabolik legnoso come un fotoromanzo, Kriminal con le facce dei personaggi tutte uguali, gli altri non ne parliamo. Certo non era Caniff, però. Però aveva una tecnica della lumeggiatura, col gioco di bianchi e neri scanditi, che non era facile da trovare in giro. Decisi di aspettare un momento, prima di protestare. Magari al prossimo numero, e intanto avrei anche potuto rivedere Nosferatu in qualche cinema d’essay, per essere proprio sicuro del misfatto, chi poteva dirlo.


Ho comperato tutti i numeri di Horror. E ogni volta ero scontento di qualcosa, e aggiungevo altre pagine al cahier de doleance, e giuravo che non gli avrei più dato un soldo, e restavo fermissimo nella decisione fino alla metà del mese. Poi verso la terza settimana qualcosa cominciava a muoversi dentro, come a Spencer Tracey quando gli finiva l’effetto e ritornava Hyde. Insomma mi intenerivo, mi sorprendevo ad immaginare come avrebbe potuto essere il prossimo numero, a mettere da parte i soldi. Perché un’altra seccatura era che costava trecento lire, che allora erano un sacco di quattrini, mai come le cinquecento sfacciate che chiedeva Kirk con le sue storie di cangaçeiros e dei suburbi sudamericani e dei mari polinesiani, ma comunque tanto, se poi nello stesso mese volevi comperare anche Linus. E Gordon e Mandrake dei fratelli Spada. E Johnny Azzardo, che usciva un mese sì e due no, ed era un tormento. E poi dovevo risparmiare per la fantascienza, Urania la trovavo sulle bancarelle, ma Galassia e Gamma dovevo comperarle nuove, mai nessuno che ne desse via una copia, nemmeno per sbaglio.

E così fino al numero ventuno. Al numero ventidue mi dissi che se pure il prossimo fosse stato come gli altri avrei scritto a Castelli, chiunque fosse, per dirgli che mi aveva stufato ed era ora di pubblicare un po’ di orrore vero, quello della Warren. E che non capivo perché, se dovevano scopiazzare, allora che scopiazzassero da Lovecraft, invece di regalare a Linus la Maschera di Insmouth disegnata da Battaglia, il maestro. Così aspettai che uscisse il ventitré, ma doveva esserci qualche problema, perché ritardava.

Adesso è finalmente uscito. Sopra ci hanno scritto numero uno, ma deve essere soltanto per motivi fiscali, perché è proprio quello che stavo aspettando. Così adesso so con chi protestare, tanto ho letto che sono sempre gli stessi, a parte Luigi Cozzi, che però già allora mi dava ai nervi raccontandomi di quei film fantastici che non avevo visto e che non sapevo se avrei visto mai. Ma almeno so che è bravo, e poi so dove trovarlo, a mettere paura ai ragazzini in mezzo ai pupazzi del museo. Che però stiano più attenti adesso, a rispondermi. Perché in questi anni, aspettando questo maledetto ventitré, in ritardo peggio del 23 Atac, ne ho imparate di cose. Sono diventato più vecchio e cattivo, parecchio.

giovedì 28 agosto 2014

Armageddon

L'dea dell'Armageddon è di quelle che più hanno infiammato nei secoli l'immagina inazione dei fantasiosi, a cominciare da quella degli scrittori "apocalittici"
Cosa c'è di meglio infatti per riempire le pagine di un romanzo di successo, che strizzare l'occhio agli antichi scrittori di cose sacre, scopiazzando da loro quinti, sesti e settimi sigilli, Anticristi e cavalcanti dell'Apocalisse?
Certo, un conto è poi se a farlo è Ingmar Bergman, tutt'altro conto se ci prova Pincopallino, ma queste sono quisquilie che il benevolo fruitore di massa perdona facilmente.
Il problema però è come al solito un altro, di fondo. Ossia l'idea errata che l'Armageddon sia un evento puntiforme nel tempo, con un inizio, un durante e una fine circoscritti a poche settimane se non giorni. Il romanziere tende a farlo credere, per una pura esigenza di foliazione e di sedicesimi a stampa, ma è un falso clamoroso. In realtà esso è un processo di lungo periodo, per il cui completamento sono necessari anni e anni e generazioni e generazioni.
Insomma distruggere il mondo è un lavoro lungo e faticoso, e non bastano un demoniaco condottiero e quattro cavallerizzi a zonzo. Occorre che ognuno di noi si dia da fare per quel che può, con metodo e tenacia, per aiutare l'avanzamento della macchina.

giovedì 21 agosto 2014

L'irrealista

Non apprezzo particolarmente il realismo, in nessuna delle sue forme. Naturalmente stimo sul piano tecnico e culturale le sue manifestazioni migliori, da Madame Bovary a Roma città aperta,da I Malavoglia a Accattone e tante altre.
Ma amarlo proprio no. Penso anzi che ogni forma d'arte che ponga la mimesi come base del processo creativo sia alla fine di ostacolo al progresso delle arti e della civiltà nel suo complesso. Perché mettendo l'accento su ciò che è, piuttosto che su ciò che potrebbe o dovrebbe essere, finisce spesso per esaltare una breve e miserabile veglia contro le sterminate praterie del sogno. Dimenticando che è l'immaginazione che muove gli uomini, ed è il sogno che dà corpo alla nostra immaginazione. Perché siamo fatti davvero della stessa materia di cui sono fatti sogni, come dice il mago Prospero.
E' anche vero che chi sostiene questa tesi ha quasi sempre fatto una brutta fine, chiudendo spesso in manicomio la sua parabola esistenziale. Ma che gran bel manicomio deve essere, quello in cui si può passeggiare sotto braccio con Hoffmann, Poe, Lovecraft, Buzzati...


mercoledì 20 agosto 2014


Il 20 giugno del 1937 partì da Istres la corsa Istres-Damasco-Parigi, un raid aereo che la Francia aveva organizzato per celebrare il decennale della trasvolata atlantica di Lindbergh.
Alla corsa parteciparono equipaggi italiani, inglesi e francesi, e fu vinta da tre Savoia Marchetti SM79 della squadriglia dei Sorci Verdi, che percorsero le due tratte alla media eccezionale per l'epoca di oltre 400 chilometri l'ora.
Per l'occasione la livrea degli aerei era stata ridipinta in rosso, il colore dell'Italia nelle corse internazionali.
Tra tante celebrazioni del nulla mi sembra giusto ricordarlo, e vi aggiungo pure un selfie scattato sul campo d'aviazione.

martedì 19 agosto 2014

Decadenza

Un tempo, quando il mondo era migliore e l'Europa splendeva, le biciclette avevano un sesso, esattamente come tutti gli altri esseri viventi.
Esisteva la bicicletta per uomo, solida e imponente, e quella per donna, più snella e aggraziata. La prima dotata di una decisa canna trasversale, pensata per l'uso di calzoni e virili avvii alla bersagliera. La seconda con il telaio adatto a essere condotta con gonne vezzose, mostrando senza esagerare un tanto di gambe piacevole e suggestivo nell'atto di avviare la pedalata di lato, con un saltello.
La canna maschile consentiva inoltre l'eventuale trasporto di una fanciulla di non eccessive dimensioni (meglio se per brevi tratti e in discesa), e soltanto chi ha provato l'estasi di pedalare nel vento con in bocca le chiome profumate dell'essere amato, sa di cosa parlo.
Anche i relativi abiti erano rigorosamente distinti. Per lui preferibilmente pantaloni alla zuava, per non intralciare l'azione della guarnitura. In alternativa era consentito l'uso di mollette da risvolto: la Brooks ne fa ancora di splendide, ma bisogna farle venire da Londra.
Per lei invece la gonna di tweed o plissé, e scarpe da bebè d'estate. D'inverno niente bicicletta.
Poi si è deciso che per risparmiare la bicicletta dovesse diventare unisex, e ne è venuto fuori questo mostriciattolo senza carattere, insipido come un formaggio al tofu. E anche l'abbigliamento ne ha risentito, strizzando il ciclista in tutine da étoile del Bolshoi, che c'è solo da vergognarsi a trovarcisi in mezzo.
Insomma siamo riusciti a rovinare pure il cavallo di ferro.

venerdì 15 agosto 2014

L'economista riottoso

Non finisco mai di stupirmi di fronte agli "economisti" che suggeriscono di ridurre la spesa pubblica per scatenare la ripresa. Ossia contrarre la domanda di beni e servizi da parte delle Stato per lasciare spazio all'iniziativa privata, che dovrebbe da sola sopperire a tutte le manchevolezze del pubblico.
Eppure se c'è una cosa evidente nella storia, è che dal momento in cui i primi ominidi scesero dagli alberi e dettero vita alle prime forme primordiali di attività economica, è sempre stata la domanda pubblica a pilotare lo sviluppo.

E' la richiesta di spade da parte del Re che avvia la fucina del fabbro del villaggio. E' la necessità di costruire il palazzo o il castello del Re che mette in moto la fornace, spinge il taglialegna nel bosco e poi il carbonaio a darsi da fare. E' per vendere merci pregiate al Re e alla sua corte che si muove il mercante per terre lontane, è per soddisfare le ambizioni guerresche del Re che il mastro d'ascia costruisce le navi. E tutto questo avviene grazie alla moneta coniata dal Re, con tanto del suo profilo sopra.

Soltanto dopo, nel tempo libero e con i proventi della prima commessa, il fabbro fucina anche forchette e cucchiai, il fornaciaio fabbrica mattoni per il condominio del privato cittadino e piatti per l'oste sotto casa, il mastro d'ascia costruisce la barchetta per il pescatore, il mercante vende le pezze avanzate alla donnetta e via via nasce il mercato.
Ma in assenza di una domanda pubblica iniziale non si innesca alcunché, e cadendo questa anche il mercato privato si inaridisce e declina.

Chi si oppone a questa evidenza cita l'esempio degli Stati Uniti. Ma l'esempio semmai conferma il contrario: perché è vero che lì per motivi del tutto particolari l'economia si sviluppò inizialmente grazie al mercato, e treni, petrolio e edilizia nacquero grazie all'iniziativa privata. Ma questa era già collassata nel 1873, e ancora venti anni dopo non era uscita dalla depressione, da cui non si riebbe se non con la domanda pubblica di armi e annessi per la prima guerra mondiale. E comunque il mercato collassò di nuovo appena dieci anni dopo, e ancora una volta fu la domanda pubblica di strumenti per la seconda guerra che riuscì a rialzarlo.

Il ciclo di grande espansione economica 1945-1990 fu determinato dalla richiesta di forniture da parte del complesso militare-industriale in lotta con l'URSS, riducendosi il quale alla caduta del Muro il libero mercato collassò di nuovo. Clinton nascose la crisi con giochetti contabili, Bush la tamponò con la guerra in Iraq e i prestiti cinesi, Obama ci si è trovato in pieno.
A conforto dell'iniziativa privata si cita a volte l'esempio di start up di singolare successo, come per esempio la Apple. Ma con tutto il rispetto per il genio di Steve Jobs, l'Apple non sarebbe stata possibile senza l'IBM che aveva posto le premesse per il computer di massa. E l'IBM non sarebbe stata possibile senza le commesse pubbliche che le affidarono via la meccanizzazione del sistema postale e della Social Security, oltre ai numerosi e lucrosi appalti del Pentagono.

Eppure ancora ogni tanto viene fuori un bello spirito che chiede la riduzione della spesa pubblica. Forse è come per i sostenitori della terra cava: magari hanno trovato davvero l'accesso all'immensa caverna, ma hanno lasciato laggiù il cervello.

sabato 9 agosto 2014

Declino della globalizzazione.


Credo che si possa ragionevolmente sostenere che tutte le crisi che si stanno susseguendo in questo scorcio di inizio secolo, al netto del loro carico di orrori e sofferenze, hanno almeno un tratto positivo che le accumuna: sono tanti chiodi sulla bara della globalizzazione forsennata.
Un'idea che, ingenua nella sua prima formulazione, correva il rischio di trasformarsi in un inferno orwelliano se portata alle conseguenze auspicate dalle grandi corporation multinazionali.
Ingenua, perché l'idea dell'uomo cosmopolita, "civis mundi", poteva andar bene nel 700, tra gentiluomini in parrucca e culottes seduti ai tavoli del café Procope a bersi delle gran tazze di cioccolatte. Ma trasportata ai giorni nostri avrebbe significato solo ritrovarci tuti a vivere in uno sterminato Alabama, a ingozzarci di hamburger e germogli di soia geneticamente modificata e ad ascoltare rapper ciccioni ventiquattro ore al giorno. E la domenica tutti al cinema con l'ultimo fregnone di supereroe Marvel.
Certo, sarebbe stato meglio se fossimo stati noi europei a contrastarla, mettendo in campo gente come Shakespeare, Leopardi, Mahler o Corto Maltese, e non i tagliagole dell'Isis, l'arcigno Putin o i bancarottieri sudamericani. Ma a volte le cose vanno come vogliono loro.

domenica 27 luglio 2014

CRISI DELLA LETTURA?


Si discute della caduta verticale della lettura, e si cerca di trovarne le cause. Ma quella fondamentale non potrebbe essere semplicemente la vita?
Ossia il fatto che tutte quelle inquietudini, emozioni, scoperte, ire, entusiasmi e depressioni che un tempo sperimentavamo attraverso la lettura adesso le viviamo in prima persona ogni giorno? Per comprendere la decadenza e la rovina economica e morale di una famiglia c'è bisogno di leggere i Buddenbrook? O basta che un genitore perda il lavoro? Per sperimentare la follia burocratica c'è ancora bisogno di leggere il Castello, o il Processo per conoscere l'ingiustizia della giustizia? La Corte dei Miracoli sta ancora chiusa nelle pagine di Notre Dame de Paris, o non invece sui marciapiedi di casa nostra? E per capire cosa significa trovarsi in una stazione abbandonata, circondati da predoni e tagliagole, c'è ancora bisogno di Michele Strogoff, o basta andare a Termini? E il Califfo dell'ISIS, non è meglio lui di tanti spietati visir delle Mille e una notte?
Temo proprio che soltanto una radicale abolizione della realtà potrebbe rilanciare i bilanci editoriali.

giovedì 10 luglio 2014

ATLANTIDE


La cosa più sorprendete del mito di Atlantide è che in fondo si tratta di uno straordinario mito della modernità.
Infatti anche se la storia è nota dai tempi di Platone, in realtà la sua fortuna si è consolidata solo nel corso degli ultimi cento anni o poco più: e questo grazie soprattutto all’opera di Donnelly e di madame Blavatsky, personaggi entrambi singolari e a loro modo davvero “atlantidei”.

Questa è la sua vera singolarità, se ci si pensa: finché la vicenda, sulla base dell’enorme prestigio del filosofo greco, è stata ritenuta “storia vera” secondo le sue parole, non ha interessato più di tanto. Qualche scarno riferimento nei mitografi alessandrini, e poi il suo utilizzo soprattutto come pretesto nel Rinascimento per alcune utopie sociali o politiche, e nulla più. Invece, con l’esplodere della narrativa popolare, ecco che questa storia antichissima è tornata prepotentemente d’attualità, come se avesse atteso pazientemente l’arrivo dei pulp per riemergere dalle acque del tempo. Quasi fosse una sorta di “obbligato” con cui ogni narratore pop debba prima o poi confrontarsi, esattamente come nessun musicista può evitare prima o poi la forma sinfonica, né il più informale dei pittori di mettersi alla prova con il corpo umano.

Ma io credo che ci sia in realtà un motivo più profondo, che si accompagna non casualmente al sorgere dell’età della crisi, e ai primi segni di declino della civiltà europea. Proprio negli anni in cui esplode l’entusiasmo per Atlantide si comincia a mettere a punto i gas asfissianti e le prime armi si sterminio di massa, e nel cuore stesso del continente si avvia la macchina che genererà di lì a poco i suoi mostri più terribili.

È questo che ho cercato di narrare ne La porta di Atlantide. Che non è assolutamente un racconto su Atlantide, ma intorno ad Atlantide. Non avevo alcuna intenzione di raccontare dell’ennesimo ritrovamento: a onta della copertina un po’ fantasy, chi si aspettasse di trovare nel romanzo manoscritti misteriosi, templi perduti nelle giungle amerindie, audaci archeologi-esploratori, vulcani sul punto di esplodere e magari anche qualche dinosauro sopravvissuto è destinato a restare deluso. Niente di tutto questo: quello che mi interessava era riflettere su come il mito ha lavorato e lavora tuttora nell’animo di noi contemporanei. Con esiti grotteschi, quando a innamorarsene sono buff creduloni come i membri della società di ricerche atlantidee. O tragici come nel caso di Vanja, che si aggrappa alla leggenda con la forza della disperazione di chi, essendo stata privata di tutto, cerca in un altrove assoluto il riscatto dall’inferno personale che si trascina dentro.
Quanto poi alla sua presunta collocazione, c'è veramente da sbizzarrirsi con la fantasia. Sprague de Camp, uno dei critici più attenti e acuti del fantastico, afferma che la bibliografia sull’isola perduta è talmente sterminata da essere seconda solo a quella della Bibbia. Non so se sia vero, ma è certo che prima di esaurire anche soltanto le teorie più diffuse si esaurirebbe la pazienza dei lettori. In estrema sintesi diciamo che si danno quattro grandi scuole di pensiero: studiosi che la collocano nel mare, altri che la situano sulla terra ferma, una terza schiera che la relega nel ghiaccio e infine coloro che la situano in una sorta di universo parallelo, separato da noi nel tempo e nello spazio. Insomma in quella regione ai confini della realtà che piaceva tanto a Rod Serling.

I primi si possono permettere un’ampia scelta, data la vastità della superficie equorea: per prima la dorsale Atlantica, ovviamente, da qualche parte intorno alle Azzorre. Questa gode i favori potrei dire dei puristi, di quelli insomma che non vogliono discostarsi in nulla dal dettato platonico. Golfo del Messico e isole caraibiche sono preferiti da temperamenti più inclini al sogno, come i seguaci di Edgar Cayce, mentre spiriti più sobri e razionalisti inclinano verso il bacino del Mediterraneo, tra Cartagine, la Sardegna e la Santorini di Marinatos. Cimbri e Teutoni preferiscono il Baltico, già meta delle loro vacanze, e i più arditi tra loro si spingono fin verso le Orcadi ed Helgoland, su fino alle isole Svalbard. Mentre amanti dei ristoranti etnici, animalisti e mondialisti in genere non disdegnano addirittura l’immenso Pacifico, ove impastano allegramente Maori e isola di Pasqua, Mu e barriere coralline in un improbabile fritto misto degno questo sì di un menù a prezzo fisso.
Quelli che voglio restare con i piedi per terra hanno a disposizione diverse alternative. Le foreste amazzoniche sulle orme del colonnello Fawcett, la pianura messicana con le sue città perdute di Cibola e le vette andine tra Machu Picchu e Tiahuanaco, le luminose caverne tibetane ove si sa che soggiornano i Signori del Mondo, ultimi eredi della razza scomparsa. Oppure le paludi della Florida, e poi l’Islanda e le coste norvegesi, e volendo anche la Nuova Inghilterra con tutte le sue premonizioni lovecraftiane.

Tra le Atlantidi non a bagno ma sommerse semmai da liane o sabbie devo dire che i miei favori vanno senz’altro all’ipotesi sahariana di Frobenius, non fosse che per la versione che ne dà Benoit. Anche se un po’ invecchiata, con la sua allure polverosa di dromedari e legionari in chepì, continua secondo me a dividersi con la She di Rider Haggard la palma di miglior racconto sul tema di tutti i tempi.
Col ghiaccio non c’è molto da scegliere: o verso sud, nell’Antartide preistorica e di clima mite del nostro Barbiero, o verso nord, nella Urheimat boreale e ariana dei torvi nazisti. Certo un panorama vetrificato e cristallino, un biancore accecante di nevi eterne non si concilia troppo con la solarità equatoriale del racconto platonico, ma non bisogna essere troppo puntigliosi. Quanto invece alla quarta schiera, di quelli che la collocano nell’iperspazio, nell’inconscio collettivo, in immense bolle trasparenti ondeggianti qua e là o tra le schiere angeliche da cui attingere messaggi di luce e salvezza per via di comunicazioni ultrafaniche, be’, lasciamo perdere. C’è un limite a tutto.

Per quanto riguarda la collocazione che ho scelto io, nel mar Tirreno davanti alle grandi isole, mi sono lasciato guidare da una serie di considerazioni sparse in una moltitudine di testi. Alcuni si possono rintracciare facilmente svolazzando tra biblioteche e bancarelle (molti di essi, specie i più antichi, sono anche reperibili in rete. Ma per alcuni particolari specifici della narrazione mi sono stati preziosissimi tre libroni: il Delle origini italiche e della diffusione dell’incivilimento italiano, pubblicato da Angelo Mazzoldi nel 1840, che mi ha confermato come già in epoca risorgimentale circolasse l’idea di nostri antichi rapporti con Atlantide. Poi il Della fisica sotterranea di Giacinto Gimma, stampato nel 1730, utile per capire come fossero considerati i fenomeni magnetici in tempi premoderni, e infine I documenti del processo di Galileo Galilei, pubblicati a cura dell’Archivio vaticano. E questo per quanto riguarda il coinvolgimento del grande pisano nella storia.
Ma esistono prove tangibili della sua esistenza? A parte naturalmente il vaso che il nipote di Schliemann disse di aver trovato tra le carte dell'illustre zio, ma che nessuno ha mai visto se non in fotografia? Al momento no, a parte forse la famosa Dama di Elche, la miglior candidata al ruolo di sacerdotessa di Atlantide che ci sia data. Ma non ha nessuna importanza: vera o no, l’isola misteriosa già esiste da due millenni e più nel nostro immaginario, il regno magico dei sogni.
Che è poi il luogo in cui magari senza riflettere trascorriamo buona parte della nostra esistenza.

lunedì 7 luglio 2014

DEUTSCHLAND ERWACHE


Ormai è chiaro che la Germania ha deciso di non cogliere l'occasione che il destino le offriva per la terza volta in appena un secolo: mettersi a capo dell'Europa e trasformarla in una vera potenza continentale.
Un complesso politico, economico e militare come forse non si è mai visto nella storia, in grado non solo di competere con le altre grandi forme imperiali su tutti i piani, ma anche di superarle senza eccessive difficoltà.
Le altre due volte aveva provato con le armi, e non era andata troppo bene. Questa volta si trattava solo di essere un minimo lungimiranti, non chiudersi nella visione ristretta di un calcolo economicistico miope, ma tentare un investimento certo imponente ma dai ritorni incommensurabili.
Ma si sarebbe dovuto ragionare con il metro dei secoli e non con quello di domani mattina. Si doveva stendere il braccio a risollevare le province più deboli, aiutare invece di sfruttare e deprimere, incoraggiare invece di minacciare. E uno dopo l'altro i paesi europei le si sarebbero avvicinati come a una amica, prima ancora che a una potenza politica. La Germania forse sarebbe stata un po' più povera per qualche anno, ma sarebbe stata amata e rispettata.
E quando la nuova macchina si fosse messa in moto, allora Berlino sarebbe stata la capitale di questa nuova entità, non per una imposizione ma per il tacito consenso di tutti, perché sarebbe stato ovvio e giusto.
Ma la Germania non ha voluto farlo, e forse questo significa solo che non lo meritava. Si è rivelata ancora una volta la "pallida madre" di Brecht, una grande e terribile assenza nel cuore del continente.
Peccato. Peccato per lei ma anche per noi. Perché non c'è un'altra Europa possibile. Perché un'Europa di banchieri e bottegai non la vuole nessuno. Perché la "generazione Erasmus" è troppo debole e inconcludente, e anche se tra dieci, venti anni sarà in grado di dire la sua, non ci sarà più alcuna tribuna da cui parlare. Peccato, Aveva maledettamente ragione, nel 1914, il ministro degli esteri inglese Edward Grey: "Le luci si sono spente, e non le rivedremo più."