venerdì 30 aprile 2010

Partiti! - 2




Il mio amico americano mi segnala l'inizio dell'ardita impresa!

In un clima di festa popolare, arricchita da grandi barbeque e musica country, ieri notte alle 23,45 ora dell'Arizona la navicella si è avviata ruggendo verso gli spazi siderali.
Ai suoi comandi il texano Montague J. Brady, colonnello pilota dell'Aviazione Confederata (chi volesse notizie ulteriori su questa meritoria istituzione può trovarle qui: http://en.wikipedia.org/wiki/Commemorative_Air_Force )

Eroe delle due guerre del Golfo, e già vice Gran Dragone del Ku Klux Klan della città di Dallas, Montague ha messo a disposizione con entusiasmo la sua esperienza di trasvolatore e di recordman, acquisita in innumerevoli sfide nei cinque continenti.

L'accompagna l'affascinante Aurore Monti-Smith, sua compagna di vita e d'avventure, nonché discendente diretta del geniale progettista. Campionessa mondiale di canasta, sempre in prima fila in mille iniziative benefiche, Aurore si è assunta il compito di documentare fotograficamente tutte le fasi del periglioso volo.

Nonostante i ripetuti tentativi di sabotaggio del governo federale che, ricorrendo a una cavillosa interpretazione del Patriot Act, ha impedito ai network nazionali di coprire l'avvenimento, un breve filmato è riuscito a filtrare attraverso le strettissime maglie della censura.

Lo accludo al post scusandomi della cattiva qualità delle immagini, girate con mezzi di fortuna proprio mentre la Guardia Nazionale faceva irruzione nella base, nel vano tentativo di fermare la partenza.

giovedì 29 aprile 2010

Nel cappello del mago.

In attesa di aggiornarvi sull'impresa spaziale dei due ardimentosi cosmonauti, vi do qualche anticipazione sulle novità che appariranno a firma del vostro autore preferito nei prossimi mesi, tra edicola e libreria.
Anzitutto alcuni racconti, sparpagliati in corpose antologie: una storia di grotteschi ed efferati ammazzamenti per Piemme, la cronaca dei singolari avvenimenti occorsi in occasione di un Ufo crash nella Maremma laziale, per Mondadori, e infine i tenebrosi risvolti di un attentato alla vita di Carlo Magno, per Hobby&Work.
Il quando, il come e le immagini di copertina non appena saranno certi e definiti.
Ma la cosa importante sarà un nuovo romanzo, La sequenza mirabile, che dovrebbe uscire tra giugno e luglio negli Oscar Mondadori. 
Su questo, in prossimità dell'evento, mi riprometto di scrivere qualche nota aggiuntiva: perché il racconto, pur di fantasia, fa perno su eventi e soprattutto su un personaggio realmente esistito, che secondo me varrebbe la pena di approfondire: il mondo del gioco d'azzardo e una singolare figura di filosofo-matematico dilettante, sostenitore ai primi del '900 di una teoria particolarmente suggestiva per affrontare vittoriosamente il tavolo verde. 
Peccato che chi la pratichi muore.
Ma, come dicevo, di questo un po' più avanti.

martedì 27 aprile 2010

Finalmente! - 1



L'immagine che vi presento, inviatami da un amico scrittore americano, mostra come la corsa allo spazio stia finalmente riprendendo, e sui binari giusti!
In una località del deserto dell'Arizona, tenuta rigorosamente segreta per evitare l'intervento del governo federale, un gruppo di arditi imprenditori dixies ha ripreso un vecchio progetto dell'esercito confederato, rimasto sepolto per quasi un secolo e mezzo negli archivi di stato di Atlanta.
L'idea pare sia stata sviluppata dall'italiano Ubaldo Monti, un ufficiale d'artiglieria dell'esercito sabaudo aggregato come osservatore presso lo stato maggiore di Lee. Appassionatosi  alla causa sudista, e in odio a Garibaldi che aveva messo la sua spada a disposizione del Nord, studiò per loro il modo di bombardare la città di Washington per mezzo di un aeroproietto spinto da un propulsore a metano.
Il razzo attuale è stato modificato rispetto al progetto originario, riconvertendo l'ogiva esplosiva in una cabina atta al trasporto di due avventurosi astronauti, insieme con un carico utile di tre tonnellate di strumenti.
Le intenzioni dei costruttori sono di raggiungere l'orbita lunare, e di lì sfruttando l'effetto fionda della gravità puntare verso il pianeta Marte, con un volo inerziale di tre settimane. 
Il fatto che le linee generali del proietto ricordino singolarmente quelle della V-2 apre un interessante interrogativo sulla possibilità che lo stesso von Braun abbia avuto accesso ai disegni originali, magari per tramite di suo padre, il barone Magnus, ben inserito nei circoli diplomatici e in contatto con gli ambienti dell'emigrazione germanica negli Stati Uniti. 
Ma questo e altro non appena il mio corrispondente mi avrà inviato ulteriori particolari. Compresa anche la data esatta del lancio, che potremo seguire direttamente in rete.

domenica 25 aprile 2010

Su verità e menzogna in senso narrativo.

Mi è tornato tra le mani un passo di Nietzsche: "L'uomo stesso però ha una invincibile inclinazione a lasciarsi ingannare ed è come rapito dalla felicità quando il rapsodo gli racconta per vere delle leggende epiche o quando l'attore a teatro fa la parte del re più regalmente che nella realtà."
Il vecchio Federico è uno di quei santi folli che sono i custodi della nostra igiene mentale, e che andrebbero riletti con una certa costanza, anche quando non sono più di moda.
A parte tutto il resto, sarebbe stato un magnifico insegnante di scrittura creativa, se mai un simile desiderio lo avesse sfiorato. Cos'è infatti un romanzo, se non la rappresentazione di uno stato del mondo con al suo interno almeno un elemento falso? Se una pur minima falsità non è riscontrabile in un testo, allora non siamo in presenza di un romanzo.
Ora la questione interessante è: come fa un falso a operare sulla nostra mente con una tale forza di convincimento da far sì nei casi migliori che tale falsità venga accettata da noi e ricodificata come verità? In altri termini perché, pur sapendo che Ulisse non è mai esistito, noi accettiamo di trattare lui e le sue vicende come se fossero vere? Al punto di disputare addirittura della sua moralità, di questionarci intorno?
Una risposta semplice potrebbe essere: perché la sua falsità è costruita con tale maestria, "somiglia" così tanto a ciò che potrebbe essere da trarci in inganno.
Ma è una risposta che non mi convince. Penso che ci sia qualcosa di più profondo nella nostra natura, e di più oscuro, che ci spinge ineluttabilmente verso tutto ciò che non è. Per qualche motivo vogliamo sempre credere a qualcosa d'altro. Come le scimmie, che a un certo punto hanno cominciato a credere di essere uomini. Forse sta in questo, più che nel loro corredo genetico, la miglior prova di una remota comune progenitura.

giovedì 22 aprile 2010

Madamina, il catalogo è questo. - 2


Non è detto che le donne della nostra vita debbano necessariamente essere di carne e sangue.
Possono essere spiriti puri come la Beatrice dantesca. Oppure filosofiche fantasime, come la signorina Classe, madame La Rivoluzione, o anche in una declinazione primo '900 lo Spirito della Luce, con tanto di Ballo Excelsior e mutandoni vittoriani.
E possono essere addirittura di carta. Vorrei richiamare la vostra attenzione su due personaggi che hanno significato molto nella mia educazione sentimentale: Dragon Lady, la femme fatale di Milton Caniff, donna affascinante, tenebrosa e ambigua il giusto, domina sempre alla ricerca di uomini da soggiogare. E la piccola Brandy, animosa fotoreporter sempre alla ricerca dello scoop, creazione di Frank Robbins.
Difficilmente chi sia stato da giovane un appassionato di fumetti può essersi sottratto all'amore per l'una o l'altra. O, come nel mio caso, per entrambe. Perchè esse sintetizzano bene la complessa articolazione dell'eterno femminino così come arrivava dall'America una volta.
Quando insomma gli americani, non ancora intronati dalla guerra del Vietnam, si sarebbero guardati bene dall'abboccare alle smorfiette di quelle quattro svampite di Sex and the City.
No, Caniff e Robbins ci regalavano settimanalmente la nostra bella dose di amanti focose, al limite del sadismo. E insieme il candore di un'eterna fanciullezza mentale, il sogno della purezza Colgate che ognuno di noi accarezzava nell'intimo per il riposo del guerriero.
Si disputa ancora tra chi dei due disegnatori sia il migliore: entrambi maestri del fumetto moderno, dopo le sbornie michelangiolesche di Alex Raymond e Burn Hogarth, con decine di allievi giù per li rami fino all'immortale Hugo Pratt.
Io tutto sommato voto per Robbins: più gioioso e svaporato del più noir ma anche più tetro Caniff, un po' più goffo nel tratteggio della figura umana, ma con quel sorriso sornione nei suoi yankees che ancora incanta. Ma anche più diffile da trovare in Italia: a me mancano ancora le tavole domenicali del '45, se qualcuno volesse aiutarmi... non posso non sapere cos'ha fatto Brandy subito dopo la guerra...

Giallo e illusione


Nei giorni scorsi mi sono trovato a discorrere con qualche amico dei rapporti tra racconto giallo e illusionismo. Posto qui un breve estratto di un articolo che ho scritto per il Giallo Mondadori. Chi fosse interessato al testo completo può trovarlo lì.

...Sì, c’è qualcosa che lega indissolubilmente la magia e il delitto. Parlo naturalmente del delitto elegante, giallo, che intercorre tra persone per bene tra una conversazione sul tempo e un leggero diverbio sulla reincarnazione. Quel delitto che secondo De Quincey richiede progetto, gentiluomini, socialità, luce e ombra, poesia e sentimento. Quanto di più lontano dal crimine bestiale del noir, che sempre quel melanconico Inglese riassumeva nel tristo trittico di coltello, portafogli e vicolo oscuro.
No, signori. Qui si pensa, prima di metter mano all’acciaio. E dove si pensa si inganna. Ed è immediata nella nostra coscienza l’identificazione dell’inganno con le azioni dell’illusionista. Chi meglio infatti di qualcuno che ha fatto dell’inganno delle menti e dei sensi la sua professione potrebbe muoversi più agevolmente tra le insidie del delitto?

Ponete mente ad un gioco di prestigio, se mai avete avuto la fortuna di assistervi. Esso, come il crimine, percuote l’animo nel profondo, sgretolando tutto quel sistema di convinzioni su cui basiamo la nostra vita quotidiana. Per qualche istante ci regala il supremo piacere di poter credere che le ferree leggi della natura, con tutte insieme congiurano al nostro progressivo abbattimento verso la terra e la morte, possano essere sospese e vinte.
Sul palco un uomo abbigliato in fogge ammiccanti vi mostra una cabina decorata da colori accesi, che segnano sulle sue fiancate esotici richiami a esotici paesaggi. L’apre, ne ostenta con chiarezza la vacuità dell’interno, la solidità della fattura, il suo essere insomma né più né meno che una scatola di legno. Poi, dopo essersi accertato che il pubblico si sia convinto di quanto va sostenendo con una gesticolazione accentuata, vi fa entrare la sua assistente e richiude lo sportello.
La cabina è isolata nello spazio, sospesa in genere su perni rotanti che le consentono di piroettare su se stessa, allo scopo di disingannare chiunque immagini l’esistenza di nascoste adduzioni da retro o dal basso. Eppure la ragazza scompare, lasciando al posto della sua graziosa presenza corporea un nulla sconcertante. O, in alternativa, appare al suo posto un nano, un mazzo di fiori, un suonatore di sassofono. Insomma qualunque cosa, ma inesplicabile...


Oppure un assassino?

martedì 20 aprile 2010

Trash e sublime - 2

Non so se davvero Ed Wood jr sia il peggior regista di tutti i tempi. Così recita uno scherzoso premio para-Oscar attribuitogli post mortem, ma io ho sempre avuto molti dubbi. Mi chiedo anzi se a modo suo non sia stato addirittura uno dei migliori.
Di certo nella fatidica decina di film da trascinare nel rifugio atomico al momento del Grande Scoppio metterei di sicuro il suo Plan 9 from outher space. Un capolavoro assoluto, un'opera che ancora oggi, a più di cinquanta anni dalla trionfale prima, lascia a bocca aperta lo spettatore.
E questo non tanto per l'incredibile interpretazione di Vampira, la funerea bellezza il cui look era ispirato alla Morticia della famiglia Addams. Né per la torva espressione di Thor Johnson, ex wrestler suonato già all'epoca delle riprese. Né per la significativa presenza di Bela Lugosi nel cast: che, essendo morto, venne sostituito dopo i primi 50 metri di girato da una controfigura ripresa di spalle per tutto il resto del film. E nemmeno per l'intensità del dialogo, che nei suoi momenti più alti ricorda il miglior O'Neill.
Plan 9 è uno straordinario, disperato atto d'amore verso il cinema: altro che Effetto notte e altre sifisticate vaghezze europee. Come un Tristano che si trascina morente verso la perduta Isotta, così Ed scende nell'abisso fotogramma dopo fotogramma, incurante dell'ostilità di Dei e Produttori, incurante dei fondali di cartone che ondeggiano, incurante delle luci fisse che fanno del set un salone da barbiere, incurante dei giorni che si fanno notti e le notti giorni, alla faccia dell'orologio.
Incurante di tutto, come è dei veri innamorati. Incurante anche degli abiti femminili che era solito indossare durante le riprese per sentirsi a più agio.
Ci manchi, Ed!

Trivia: si dice che i dischi volanti che ondeggiano qua e là appesi a una lenza fossero le borchie delle ruote di una Lincoln del 47, trovate in uno sfascio. Di certo le armi degli invasori spaziali sono Space Patrol Rocket Gun, giocattoli di plastica molto diffusi tra i bimbetti dell'epoca.


sabato 17 aprile 2010

Ucronie.

Qualche settimana fa sono stato a Liegi, invitato dalla locale università per un convegno sull'ucronia. Ospite di Fabrizio Foni, uno dei massimi teratologi della letteratura italiana oggi sul campo.
Stavo giusto rimettendo insieme le note del mio intervento per gli atti, quando saltabeccano in internet mi sono imbattuto nel filmetto che vi sottopongo. E mi sono chiesto: se invece di essere liberati da maneschi e un po' sbracati yankees, lo fossimo stati da un esercito capace di sì leggiadri volteggi, che aspetto avrebbe oggi l'Italia?
Quello di una landa abbrutita, irta di reattori nucleari pericolanti, popolata da rancorosi ex deportati in campi di rieducazione, e percorsa da convogli di macchine blindate occupate da neo-mafiosi in completo Armani?
Oppure quello di una Fairyland in cui le nostre tradizionali attitudini canore si sarebbero congiunte con le doti tersicoree dell'invasore, generando una festosa eterna primavera in cui tutta la sublime leggerezza dell'essere avrebbe trovato una mirabile composizione?


giovedì 15 aprile 2010

Quando è finito il futuro?


Chiunque sia vicino o abbia superato il mezzo secolo non potrà non convenire con me: il futuro non è più quello di una volta, come già a suo tempo aveva notato Paul Valery.
Quindi la sensazione che le meraviglie promesseci dalla scienza e la tecnologia non si siano realizzate non è cosa solo dei nostri giorni, martoriati da catastrofi ecologiche e crisi belliche. Però per quelli che sono nati negli anni '50 il trauma è ancor più evidente.
Io per esempio avevo abboccato al fatto che prima o poi sarei andato sulla luna, grazie al Moonliner della TWA (vedi foto).
Solo più tardi ho scoperto che il razzo esisteva solo a Disneyland, e che il padrone della TWA, Howard Hughes, era matto. Ma gli voglio bene ugualmente, più che a tanti altri: per un breve intervallo ha saputo rendermi felice.

domenica 11 aprile 2010

Il demone della velocità.


Ho sempre amato il Futurismo, da molto prima che il ricorrere del centenario lo richiamasse agli onori della cronaca. Qui non è però in questione la valenza estetica complessiva del movimento, quanto uno dei suoi tratti caratterizzanti: il culto della velocità. Come tutti i pigri, ne sono affascinato sin dalla più tenera età.
Fu questo a portarmi, nell'estate del 1966, a dare man forte a uno dei più scervellati tentativi di record che la storia (non) ricordi.
Tutto nacque nella mente del mio amico Mario, il "grande Meaulnes" della mia primissima adolescenza. colui che mi fu mentore e tiranno, che mi insegnò a costruire i primi aeromodelli, a salire sugli alberi per recuperarli e a bestemmiare quando fossero definitivamente perduti. E che mi iniziò alla caccia di indifesi animaletti con il Diana, alla goduria delle risse e alle prime inquietudini dell'amore, in ragione di una sua bellissima sorella che ci seguiva nelle scorribande.
Da tempo la sua attenzione ruotava intorno a una vecchia lambretta del padre, rossa fiammante per una ritinteggiartura al minio con cui il bravuomo trattava le cancellate nella zona.
Approfittando di una sua assenza per lavoro trascinammo il veicolo dal celebre Mandrache, un meccanico di Ostia Antica in fama di preparatore di motori per le corse dilettantesche che si tenevano allora. Seguendo i suoi consigli smontammo il motore, tirammo via tutto il possibile del pistone con la smerigliatrice, fino a ridurlo una specie di frittella, in modo da aumentare allo spasimo la cubatura del piccolo 125 cc. Poi trapanammo l'ugello del carburatore, collegandolo con un tubo di gomma a un imbuto fissato al manubrio, per realizzare un'embrionale forma di sovralimentazione. Quindi Mandrache passò a Mario dei misteriosi ingranaggi di origine ambigua, atti ad alterare i rapporti della scatola del cambio, e strappammo via la marmitta.
Finalmente, all'alba di una mattina di agosto, su un tratto deserto del vecchio circuito automobilistico di Castelfusano, ebbe luogo il tentativo. Il serbatoio fu riempito di una mistura di fantasia, otto parti di benzina super, una di kerosene per riscaldamento e una di etere per aviomodelli. Cui si aggiunsero quattro pasticche di STP che avranno portato gli ottani a 200. Per evitare il rischio di impennamenti il mezzo era stato zavorrato con due blocchetti di tufo legati al pianale, rubati in un cantiere edile lungo la strada.
Con la sola protezione di un paio di occhiali da saldatore Mario avviò a spinta la Lambretta e si avventò, rombando come uno Stuka, verso di me che lo aspettavo tre chilometri più avanti, con in mano il cronografo di mio padre. Affermo qui che, prima che la fusione delle bronzine e il conseguente grippaggio con totale distruzione del motore e della trasmissione interrompessero il generoso tentativo, Mario raggiunse i 147,6 chilometri orari.
Considerati i danni irreparabili, smontata la targa e scalpellati via alla meglio i numeri del telaio, l'eroico mezzo fu abbandonato sul ciglio della strada, secondo gli usi incivili e pre-ecologici del tempo.
Fast & Furious? Mi fai un baffo, Vin Diesel!

Madamina, il catalogo è questo - 1

E' opinione diffusa presso gli psicoanalisti, in ispecie quelli da 150 a botta, che per gli esseri umani valga la stessa regola delle papere di Lorenz: ossia che ci si affezioni alle prime cose che vediamo allorché la mano di Dio ci strappa dal beato mondo delle idee e ci deietta nel mondo delle cose. Per cui la nostra donna ideale non sarebbe altro che il fantasma travestito dal tempo e dalla dimenticanza di nostra madre. Naturalmente fissata nell'aspetto glorioso che aveva al momento della nostra nascita.
Sarà così. Però credo che anche altri fattori concorrano all'imprinting che poi ci trasciniamo dietro. Per esempio, nel mio caso, il cinema.
All'epoca in questione, si era sul crinale dei '50, ero spesso affidato alle cure di una nonna, cinefila acritica, che mi trascinava ogni pomeriggio al Farnese, sala di terza visione nei pressi dell'omonima piazza. Non so se per meglio sopportare la guardiania impostale, o perché davvero interessata allo spettacolo, fatto è non ne uscivamo prima di aver visto almeno due volte ogni pellicola.
Però, per il fatto della terza visione, la programmazione era retrodatata e di un bel po': per cui invece di appassionarmi alle curve di Sophia Loren o a quelle di Anitona, che certo sarebbe stato molto più sano, io andavo costruendo il mio immaginario erotico su Ginger Rogers, Greta Garbo e Dorothy Lamour. Creando una sfasatura che poi con gli anni si sarebbe rivelata drammatica: quando sarei stato in età per organizzare fan club delle mie dee, bersagliarle di missive, tentare un contatto diretto spacciandomi per collaboratore dei Cahiers du Cimema, quelle si erano gà ritirate, se non passate addirittura nel Grande Altrove.
Insomma mi ritrovai nell'incomoda posizione di un innamorato delle fanciulle morte.
Voglio qui celebrare per prima l'attrice che forse ha più scavato nel profondo: l'indimenticabile Veronica Lake. Dalla carriera straordinariamente breve, come è di tutte le manifestazioni del numinoso: solo cinque o sei film, e poi alcol e schizofrenia la trascinarono nel nulla.
Ma come disse un poeta "La mia candela brucia da entrambi i lati,
non durerà tutta la notte. Ma amici miei, e miei nemici, com'è splendente la sua luce."

sabato 10 aprile 2010

Trivialliteratur?

Mi capita spesso, quando in compagnia di qualche amico la discussione ritorna sull'eterno e stucchevole dibattito narrazione di genere/narrazione alta, di sostenere una tesi che potrebbe apparire paradossale.
Ma nella quale, come spesso nei paradossi, mi sembra si celi una verità: che la narrazione alta non esiste. Esiste soltanto il racconto di avventure.
Ohibò, direte voi. Se però ci pensate un attimo, in tutte la culture la narrazione nasce per gli stessi motivi e nelle stesse forme: come celebrazione delle gesta degli eroi. Visti nel loro tratto qualificante, la capacità di avventurarsi in un territorio altro rispetto a quello normalmente praticato dai membri della comunità.
Un'avventura continuamete ri-narrata, sia per rafforzare il sistema valoriale della comunità, sia nel profondo per attenuare il sentimento d’impotenza e di finitezza che si accompagna alla scoperta delle nostra mortalità.
Non a caso la narrazione di gesta celebra sempre l’ascesa dell’eroe in un non-tempo mitico che lo pone al riparo dalla degradazione entropica dell’esistenza. Magari proprio attraverso la morte, che spesso è il vero happy end dell'eroe.
E l’atto di assistere allo sviluppo della vicenda, che nelle comunità primitive assurge spesso al rango di vero e proprio rito, associa simbolicamente il celebrante alla sua apoteosi. Facendolo però salvo dal tragico destino che l'eroe esplora per lui.
In questo senso ogni narrazione è narrazione di un'avventura. Che si svolge necessariamente lungo uno dei tre assi del nostro incardinamento al mondo: di lato nello spazio, avanti o indietro nel tempo, in alto verso lo Spirito o in basso verso gli abissi della Psiche nei romanzi psicologici.
L'avventura è quindi la madre di tutte le narrazioni. Qualunque racconto ci venga in mente di scrivere, alla fine esso non risulterà altro che una cartografia precisa di come un personaggio transiti da uno stato del mondo all'altro, e degli ostacoli che esso incontrerà sul suo cammino.
I generi nei quali tendiamo a segmentarla sono solo delle categorie funzionali, che fanno perno su aspetti tutto sommato marginali della loro struttura.
Il punto cui voglio arrivare è che anche la narrazione alta, mainstream,è alla fine un genere di avventura e, come tale, racconto fantastico.
Perché l'altra diatriba insanabile è quella che oppone una narrazione pretesa mimetica della realtà, quindi seria e produttiva, a un altra che folleggia sotto le insegne della fantasia più sfrenata. E quindi minore, e rivolta a menti più rozze o infantili. E per di più disonorata ulteriormente come scrittura di "evasione", nel senso di una letteratura che prospettando mondi radicalmente alternativi, finisce con l'esercitare sulla mente del lettore una sorta di soporifero adattamento all’esistente.
Nulla di meno vero. La narrativa di genere “diverte” sì, ma nel senso etimologico di “de-vertere” ossia volgersi altrove, percorrere altre strade. Dunque sviluppa nel lettore quelle categorie mentali attinenti la ricerca di alternative che meglio spingono ad assumere una posizione propositiva proprio nei confronti dell’esistente. Che è il contrario di quell’istigazione alla passività imputatale da una certa critica ortodossa e ostile.
Di contro la letteratura mainstream non è necessariamente più realista dell'altra, né una migliore interprete dei tempi: a noi “sembra” che il salotto di madame Bovary sia più vero della foresta incantata di Broceliande, semplicemente perché le nostre categorie di interpretazione della realtà sono ancora più simili a quelle di Flaubert che non a quelle di Geoffroy de Monmouth.
La pretesa superiorità del racconto di impianto realistico su quello fantastico deriva in definitiva soltanto dal nostro angolo di prospettiva.

A proposito di gialli storici.

Riposto qui per gli amici qualche osservazione sul giallo storico, che ho già sparpagliato per frammenti nell'evanescenza della rete.

Da tempo ormai non ci si raccapezza più con il vecchio giallo. Fino a qualche anno fa era una griffe notissima e indiscussa: anzi dominava incontrastata, da scatenare l’antitrust. Bastava la parola, almeno qui da noi, e dall’edicola alla più raffinata delle librerie ci si capiva subito.
All’estero era un’altra storia.Gli inglesi per esempio avevano cominciato presto a cincischiare, con i loro detective novel, crime novel, mystery novel, ma si sa gli inglesi sono sofisticati e gli piace strano, come la mania di guidare a sinistra. Gli americani non ne parliamo. Poi sono arrivati i cugini francesi con il loro noir, che alla fine è sempre giallo, come lo champagne sempre spumante è. Ma guai a dirglielo però, c’è da rompere le relazioni diplomatiche. E così di complicazione in complicazione e di sottogenere in sottogenere siamo arrivati al caos di oggi, che nemmeno alla stazione Termini in un’ora di punta.
Tra tutti i sottogeneri ce n’è uno che sta godendo da qualche tempo un crescente favore da parte del pubblico, fino a ritagliarsi una solida nicchia nel panorama editoriale di tutto il mondo. Si tratta del giallo storico, l’historic mystery degli anglosassoni.
Ma cos’è un giallo storico? A prima vista la risposta sembrerebbe facile: un’avventura a sfondo poliziesco che si svolge nel passato. Semplice.
Eppure già questa prima affermazione aprirebbe al causidico una bella occasione di dibattito: e perché? Si può fare storia soltanto del passato? In un tranquillo universo positivista certamente sì: ma nei nostri tempi così inquieti e terremotati da una totale incertezza sul senso delle cose, e per di più resi ancor più incerti dalle teorie di Heisenberg e dalla meccanica quantistica, siamo davvero così sicuri che non si possa trattare il futuro con la stesa spigliata nonchalance con cui discettiamo di cose passate? Che insomma il nostro orizzonte degli eventi non ci esili, e nello stesso tempo avvicini, in modo eguale ai due coni d’ombra del non-è?
Ma senza avvitarci ora in speciose argomentazioni, e prendendo atto che al momento non esiste ancora in nessuna università una bella cattedra di Storia del Domani, restiamo al tema. Dunque una storia di ammazzamenti e di solerti indagini in un’epoca passata.
Ma allora, potrebbe e con ragione argomentare qualcuno, una storia di Sherlock Holmes è un giallo storico? Verrebbe da dire di sì: gli elementi ci sono. Un delitto, un’indagine, una soluzione. E il tutto tra hansom cab e lampioni a gas, il telegrafo come novità assoluta e le impronte digitali di là da venire.
Eppure sentiamo d’istinto che qualcosa non va in questo ragionamento. Se lo accettassimo tutto diverrebbe giallo storico: anche il Falcone Maltese lo sarebbe a pieno titolo. Con i suoi telefoni candlestick, quelli di Paperino, i doppi petti gessati di Sam Spade e le Ford model A ronzanti su e giù per le colline di San Francisco. Alla stessa stregua sarebbero storici i gialli di Simenon, della Christie e il novanta per cento di tutti i gialli di ogni tempo.
Il modo d’uscirne può essere quello di fissare la regola per cui è storico solo il giallo ambientato in un’epoca precedente rispetto a quella in cui è stato scritto. Questa definizione va benissimo per i grandi classici del genere, a cominciare dal Nome della rosa, che resta a mio avviso il capolavoro assoluto in questa accezione. Però così sarebbe storico anche L.A Confidential di Ellroy, ambientato nella Los Angeles degli anni ‘50 ma scritto nel 1990, e addirittura Romanzo Criminale, ben piantato nelle bassezze della Roma dei ‘70 ma scritto trenta anni dopo. E moltissimi altri romanzi, spostati all’indietro anche solo di qualche anno rispetto a quello della loro composizione, si ritroverebbero ope legis nel catalogo.
In pratica qualsiasi mystery, che non riguardasse strettamente fatti cronaca letti questa mattina nelle pagine di nera del giornale, sarebbe un giallo storico. Non è possibile, specie se continuiamo ad assumere l’opera di Eco come parametro.
Potremmo allora cavarcela adottando una formula estremamente ampia: sono gialli storici quelli in cui a qualsiasi titolo troviamo dei riferimenti a elementi storici. Ma così diventa un giallo storico anche Il codice Da Vinci. E poco importa che qui la storia sia un po’ alla buona, al punto che Dan Brown, il suo fortunato autore, sembra credere che Da Vinci sia il cognome di Leonardo: ci sono i Templari, c’è Leonardo, addirittura Gesù Cristo e quindi ci siamo, più storico di così!
Così anche questa risposta alla fine sembra insufficiente: non resta che abbracciare un’istanza ancor più radicale. Un giallo storico è quello in cui il vero protagonista è appunto l’elemento storico stesso. Pensiamo ancora una volta al Nome della rosa: chi è il protagonista del romanzo? Il monaco indagatore Guglielmo? Jorge da Burgos? Quel fetente di Bernardo Gui l’inquisitore? No, il vero protagonista è lo scontro ideologico che si accese in Europa a cavallo dei secoli XIII e XIV, e il modo in cui esso penetra e scuote le coscienze individuali fino a generare, nel caso del romanzo, una catena di delitti.
La prova è proprio nel ragionamento a contrariis: possiamo introdurre nell’intreccio qualsiasi variazione, giocare a invertire i ruoli, introdurre o togliere personaggi, modificare perfino lo sviluppo della trama e avremo ancora una narrazione coerente e consistente: ma se eliminiamo il tema di fondo, lo scontro tra due modelli culturali l’uno rivolto all’indietro verso gli albori della cristianità e l’altro proteso in avanti verso il nascente umanesimo, tutto si sfalda e diventa incoerente. La stessa trama criminale non avrebbe più alcun senso.
D’accordo, allora? Ma adesso complichiamoci la vita introducendo un altro e ancor più dirimente problema: che storia ci deve essere in un buon giallo storico? E la domanda è di spessore, tanto da accendere tra i fans e gli specialisti un’accesa discussione.
Bisogna scrupolosamente attenersi ai fatti accertati, oppure il narratore ha il diritto di colorare la storia secondo il suo estro e gli scopi che si prefigge? Manzoni, che fa morire Adelchi in battaglia invece di lasciarlo tranquillamente scappare, come pare che fece nei fatti, è un falsificatore? E se nei Promessi Sposi Lucia venisse assassinata, il romanzo avrebbe titolo per essere definito un giallo storico? Perché in definitiva il giallo storico non è altro che una sottoclasse del romanzo storico, di antiche e nobili tradizioni.
Ma appunto, che storia deve essere quella dei gialli storici? Immaginate di trovare un romanzo così: luogo, la Roma del I secolo a.C. Sono le idi di marzo del 44 e Cesare è appena arrivato nel teatro di Pompeo. Di botto viene circondato dalla turba dei congiurati e ucciso con le famose ventitre pugnalate. Poiché la cosa ha fatto scalpore, praticamente ognuno dei ciarlieri cittadini romani ha sentito il bisogno di dire la sua e quindi sappiamo esattamente come è andata. Ci sono infatti un sacco di testimonianze. Marco Antonio accorre, e si china disperato sul cadavere dell’amico-protettore, mentre i congiurati si scatenano per la città inneggiando alla morte del tiranno.
È o non è storia? Più storia di questa! Buona per Shakespeare e per noi all’esame di maturità. Ma ammettiamo adesso che Antonio, sempre chino sul cadavere, si accorga da qualche particolare a lui solo noto che quello non è il corpo di Cesare, bensì di un sosia, mandato al posto suo per timore dell’infausta profezia dell’augure Spurinna. È perplesso (del resto Marco Antonio è notoriamente un culturista, non certo una mente), non sa bene che fare. Cesare è scomparso, si nasconde, avrà allora un suo piano, magari vuole approfittare del fatto che tutti lo credano morto per qualche regolamento di conti con il Senato o chissà che altro avrà in testa.
Decide allora di tacere, per vedere come piega. Intanto però tra il lusco e il brusco i cesariani stanno eleggendo proprio lui, Antonio, a capo del partito, con grosse prospettive nel prosieguo. Il nostro Antonio, che è sì un culturista ma mica proprio scemo, si fa vincere dall’ambizione. Immaginando che il sor Giulio sia nascosto nel suo buen retiro di Nemi, con la scusa di prepararlo per le esequie fa sparire il corpo del morto, raggiunge Cesare e non visto gli rifila le canoniche ventitre pugnalate. Poi sempre col favor delle tenebre riporta il Cesare vero a Roma. Di qui la storia prosegue come sappiamo, l’orazione strappalacrime e tutto il resto, mentre il romanzo è finito. E che nessuno provi a scriverlo perché l’ho già fatto io!
Improbabile? Non scherziamo, e la fuga di Edmond Dantes dal castello d’If, allora? Nessuno ci ha mai trovato niente di strano. La domanda piuttosto è un’altra: quello che ho scritto è un giallo “storico”? Dipende. Per lo storico certamente no, mi diffiderebbe dall’uso dell’aggettivo. Per me che lo scrivo sì, e per questo vorrei sgombrare il campo una volta per tutte da un pericoloso equivoco: che il giallo storico debba muoversi rigorosamente all’interno del recinto dei fatti accertati.
So bene che questa è un’istanza portata avanti in stretta alleanza tra cattedratici della materia e lettori di provincia: i primi perché sospettosi di ogni intrusione non professionale nel loro campo, i secondi perché affezionati all’idea di arricchire la propria cultura in maniera dilettevole e con poca spesa.
Invece no, il giallo storico esplora proprio gli angoli non accertati del passato, ed è per questo che rivendico il diritto all’uso dell’aggettivo. Infatti il racconto in questione non è una pura ucronia: non vi si afferma che Cesare non sia morto nel 44 a.C., né che Napoleone abbia vinto a Waterloo. La trama della storia accertata non viene lacerata in nessun punto, le cose proseguono come sono, non aprono la porta su un universo parallelo. Soltanto, la storia viene interpretata in modo congetturale, come direbbe Borges.
E posso chiamare a sostegno della mia tesi diversi illustri padri del genere, che certo hanno tenuto conto dei fatti, ma senza mai restarne prigionieri: da Walter Scott a Victor Hugo, da Dumas a John Ford la caccia agli svarioni e ai blooper riempirebbe il carniere anche di uno studentello di liceo.
Ma c’è un ulteriore motivo, ancor più profondo, che spinge ad interpretare la storia in modo congetturale, oltre il piacere della narrazione. È che non si può fare altro! Già gli antichi se ne erano accorti, tanto da definire appunto la storia opus oratorium maxime, bello e sonante modo di dire che la storia è prima di tutto un molto organizzato sistema di chiacchiere, ben dette e formulate.
Perché davvero la storia, per strano che possa sembrare è dopo la statistica la più umbratile delle scienze. Analizzare un episodio storico è come guardare lo schermo di un televisore: alla giusta distanza scorgiamo la più bella delle figure, ma se ci avviciniamo scopriamo che tutto si sgrana in un caos di pixel multicolori, che solo la nostra mente tiene insieme in un’immagine. I pixel sono i fatti, i documenti. L’immagine, ossia la narrazione storica che ne consegue, è soltanto interpretazione.
Ma come, una disciplina ancorata ai “fatti” e che proprio nei fatti trova la sua ragion d’essere è invece il regno dell’incerto? Ahimè sì, e per ottimi motivi.
Tutto nasce da quello che noi conosciamo del passato. Che in realtà è tanto e pochissimo. Se escludiamo l’interpretazione e pretendiamo di ancorarci ai documenti, si scopre che non sappiamo in realtà nulla di ciò che risale a prima del quarto-quinto secolo a.C. A parte qualche elenco di regnanti e il ricordo di qualche battaglia famosa, tutto il resto non è fatto ma interpretazione.
Ma poi arrivano i “documenti”, dirà qualcuno! Giusto, ma proprio i documenti sono spesso la più fallace delle fonti. Noi ci aggrappiamo a essi con la disperazione di un mitile allo scoglio solo perché, dall’epoca degli scribi egiziani, siamo condizionati da un mito suggestivo, alimentato ad arte proprio da quegli scribi per primi: ossia che ciò che è scritto sia vero.
E che anzi nella parola scritta gli dèi abbiano insufflato una sorta di spirito magico, che dal Libro dei Morti giù fino alle costituzioni degli stati moderni valida ogni testo scritto con una sorta di sigillo supremo di intangibilità e di verità. Ma non è così: i documenti su cui facciamo tanto affidamento soffrono invece di una duplice potenziale fallacia.
Anzitutto possono essere bellamente falsi: dal catalogo dei re egizi di Manetone alla donazione di Costantino, al passo dell’oscuro chierico che inventa di sana pianta tutta la legenda di re Artù spacciandola per autentica, l’elenco delle invenzioni e falsificazioni storiche sarebbe lunghissimo. Ma soprattutto i documenti sono sempre drammaticamente parziali: immaginate che tra migliaia d’anni, scomparsa ormai la vita dalla terra, una spedizione di Marziani cerchi di ricostruire la nostra storia. E che casualmente i loro archeologi si imbattano in un pacco di lettere alle famiglie dei custodi dei campi di sterminio, qualche annata del Völkischer Beobachter e una pizza dei filmini propagandistici girati per darla a bere a quei curiosoni della Croce rossa internazionale.
Sicuramente nei testi di storia marziana troveremmo scritto che verso la metà del secolo XX si sviluppò sulla Terra un’associazione benefica, chiamata SS, dedita all’assistenza dei membri della società afflitti da un’indefinita tara ereditaria, cui si occupava di fornire alloggio e cibo gratuiti, vestiario, lavoro, in appositi campi eretti in località amene nell’attesa che lo stato fosse in grado di fornire una soluzione finale al loro disagio.
Campi dotati di docce e impianti sportivi, e in cui veniva prestata un’efficiente assistenza medica agli occupanti, tanto più rimarchevole in quanto dedica anche a ricerche scientifiche avanzate in materia di genetica. Così attraenti da dover organizzare un’intera rete di trasporti gratuiti per potervi condurre le folle che da tutta Europa si affollavano per accorrervi. E questo sulla base di documenti inoppugnabili.
Esagerato? Mica tanto, se si pensa che è più o meno quello che facciamo noi quando ricostruiamo la congiura di Catilina sulla base delle testimonianze di Cicerone o di Sallustio, o crediamo davvero che Caligola fosse il pazzoide descritto da quella linguaccia di Svetonio. Il problema è che gli uomini non mentono mediamente ogni tre minuti, come affermano molte ricerche psicologiche e il bel telefilm Lie to me con Tim Roth: gli uomini mentono sempre, anche quando non sanno di farlo. Nel senso che lavorano continuamente per chiudere quelle fonti di angoscia che sono gli spazi vuoti nella conoscenza delle cose, che vanno comunque riempiti in qualche modo. Ora quello che è fonte di angoscia per lo storico, queste lacerazioni nella trama dei fatti, diventa invece felice terreno di pascolo per il romanziere, che vi si scatena senza pudori.
Lo scrittore di romanzi e gialli storici diventa così una sorta di solerte rammendatrice della trama lacerata dei fatti. Chiude i buchi con materiale che crea lui stesso, come il ragno che fila la sua tela, cercando di raggiungere un risultato il più possibile simile al tessuto intorno. Ovvio che uno strappo resta uno strappo, anche sotto le mani più abili, e il concetto di rammendo invisibile è alla fine solo pubblicità.
Ma per quanto simile a quello di un umile artigiano, pure la sua opera ha una certa grandezza. Ci scampa dal terribile peso dell’ineluttabilità del passato, come quella ci salva il paio di pantaloni. Va a smuovere le nostre conoscenze cristallizzate, ci suggerisce all’orecchio che no, non è vero che “ciò che è stato è stato” e non c’è nulla da fare. Conforta le nostre inquietudini con l’idea che un altro mondo e un’altra storia sono sempre possibili.
È questo il lavoro di ogni buon giallo storico: intessere nella catena degli avvenimenti una miriade di fili colorati raccattati in giro, in modo da colmare gli spazi vuoti tra gli anelli di ferro dei fatti. E alla fine, quando l’opera è compiuta, lo scrittore come il più abile dei tessitori rovescia sul tavolo il suo lavoro, e mostra un’immagine inattesa. E come in ogni arazzo, l’ordito aspro e rozzo è scomparso e trionfano i colori del sogno.

venerdì 9 aprile 2010

Trash e sublime

Per la narrativa, e soprattutto per quella di genere, credo che valga lo stesso principio che governa il muro romano: è splendido e solido nella sua apparenza esterna, ma dentro è tenuto in piedi da un ammasso indistinto di pozzolana, pietrisco e cocci impastati insieme alla meglio.
Rivangarci con le dita fa la gioia di ogni archeologo, esattamente come per il narratore è un piacere sottile imbattersi in qualche lacerto di trash monumentale, più utile di qualsiasi droga a mettergli in moto il cervello. Recentemente ho scoperto un film degli anni '60 che mi ha estasiato. Ve ne sottopongo la scena clou, sicuro che incontrerà l'approvazione di ogni sincero appassionato di stravaganze.
Si tratta di They saved Hitler's brain, purtroppo mai circolato in Italia. Se a suo tempo fosse stato doppiato, sicuramente la storia della nostra cinematografia sarebbe stata diversa.

mercoledì 7 aprile 2010

No. Non comprerò un i-Pad.

Non ho intenzione di comperare un iPad. Nonostante la mia stima e ammirazione per Steve Jobs (ho ancora per casa il mitico Apple II e l'ancor più straordinario Macintosh a bussolotto) questa volta non abboccherò. Come non ho comparato un iPhone. E nemmeno un qualunque e-reader, del resto. I libri mi piacciono di carta, e se devo parlare con qualcuno preferisco il vecchio telefono, con tanto di squillo annunciatore: mi serve il tempo per pensare a quello che dirò, preferico i mezzi che alla fine rallentano lo scambio di informazioni, invece di accelerarlo all'esasperazione. Ritengo che Corrado Guzzanti abbia colto un tratto essenziale della attuale frenesia comunicativa, nel filmino che vi accludo.

martedì 6 aprile 2010

A proposito

E' vero che ho sostenuto che lo scrittore deve parlare di sé solo nei libri. Però non posso mica scrivere un libro alla settimana! Per cui negli intervalli parlerò anche d'altro.
Per esempio della mia collezione di giocattoli spaziali. Questa è una passione che nasce da una profonda frustrazione: quando ero piccolo, alle prese con le prime lezioni di inglese, pensai che un buon modo per rendere meno sgradevole lo studio fosse quello di esercitarmi sui fumetti americani: allora si trovavano soltanto in un'edicola di via Veneto (proprio quella del signor Max, se avete presente il film): erano quei magnifici comic book della Gold Key, con i paperi di Barks e gli episodi originali di Ai confini della realtà, tra gli altri. Io li trovavo meravigliosi: ma quello che mi rovinava il gaudio erano le pagine di pubblicità inserite tra i fumetti. Giocattoli, ovviamente.
C'era per esempio la carabina Daysy a ripetizione, con cui i miei coetanei americani erano liberi di sparacchiare a parenti e amici, mentre io a Natale avevo ricevuto un fuciletto a tappo vagamente ispirato al 91 di mio nonno ardito della Grande Guerra. E poi c'erano le armi spaziali! Straordinari congegni multicolori, che si intuivano ruggenti di raggi fotonici e di altre diavolerie.
La loro visione deve aver aperto uno lacerazione incolmabile nel mio animo, non più richiusa fino a quando, qualche decennio dopo, in un negozio di rigattiere mi capitò di trovare un esmplare abbastanza malridotto dell'Atomic Disentegrator di Buck Rogers, finito lì chissà per quali vie. Il suo acquisto fu la pietra d'angolo di una raccolta che continua tuttora, combattuta a colpi di sfide su eBay.
Appunto l'altra notte sono riucito a strappare al mio arcinemico RayGunMan un esemplare del segretissimo congegno giapponese 888 (vedi foto), gabbandolo con un rilancio a tradimento negli ultimi secondi. La felicità, come diceva Trilussa, è davvero una piccola cosa.

Presentazione a Roma


Giovedì 8, alle 17, presenterò alla biblioteca Grazioli (sì, proprio davanti al famoso palazzo!) la Regola delle Ombre. E insieme con Paola Mastrodonato parleremo del suo ultimo libro su Bianca Cappello. Misteri rinascimentali dunque, della migliore qualità. Se qualche amico romano ha voglia di passare un'ora in compagnia di due gagliardi chiacchieroni è come sempre il benvenuto.

domenica 4 aprile 2010

Per i più giovincelli



Da qualche giorno è uscito nelle librerie un nuovo racconto della serie per ragazzi (adesso si dice young adult, ma insomma avete capito). Una tenebrosa storia che vede all'opera il misterioso conte di Cagliostro, e una non troppo ingenua orfanella veneziana nel ruolo di sua assistente.

Nel descrivere il conte mi sono preso qualche libertà, il libro non è troppo indicato per chi cerca nella lettura particolari approfondimenti storico-culturali.

Ma se avete figli o nipoti fantasiosi, ecco qualche indicazione dalla quarta:


Nella foschia dell'alba il Conte di Cagliostro approda a Venezia, la città in cui le maschere del Carnevale e la cipria dei consiglieri non bastano più a celare intrighi e tradimenti. E dalle calli più oscure alle umide stanze nobiliari si diffonde la fama di uno stravagante guaritore venuto dall'Est. È un mago? O attinge alla sapienza di civiltà sepolte nella sabbia del Sahara? Per Serafina, il Conte è solo un simpatico truffatore. Lei lo fiuta lontano un miglio, e non solo perché è orfana e Principessa dei ladri. Lui la sceglie come assistente e le insegna che la vita è illusione, burla, magia. Polverosa come le acque del Canal Grande e liquida come gli ori di San Marco. C'è anche chi è disposto a pagare il Conte in pietre preziose in cambio dell'eterna giovinezza. O a uccidere. Ma Serafina ha negli occhi le fiamme della sfida. E chissà se la sfida più grande è vivere per sempre o morire infinite volte...

sabato 3 aprile 2010

Per molto tempo ho evitato di dar vita a un blog. Mi ha sempre trattenuto una decisa ripugnanza a infoltire lo straripante numero di chiacchieroni nulladicenti che già affollano la rete.

Faticando già molto a riempire le pagine di qualche libro, non mi è mai sembrato di avere tanto altro da comunicare che giustificasse l’impresa. Né mi è capitato di riscontrare che i fatterelli di uno scrittore, al netto naturalmente dei Grandi, fossero poi così ammalianti da giustificare un surplus di attenzione nei suoi confronti. Ho notato anzi che, invita Minerva, scritti e parole di quanti attentano alle patrie lettere propendono spesso per il vacuo e l’autocelebrativo.

D’altro canto mi trovo da un po’ di tempo in imbarazzo, quanto all’aggiornamento del mio sito: da un lato non voglio gravare più di tanto sulla cortesia degli amici che lo gestiscono con continue sollecitazioni, dall’altro non ho alcuna intenzione di penetrare nelle oscure procedure dei vari HTML, Flash, Mpeg e compagnia bella, per cavarmela da me.

Spero quindi che queste note assolvano insieme una funzione di più puntuale aggiornamento, e insieme di occasione per qualche rapida considerazione tra amici. Vi prometto che non vi comparirà altro: se uscirà qualche novità ve ne darò discretamente gli estremi, ed egualmente se mi imbattessi in un libro o un film particolari mi permetterò di consigliarvelo.

Se poi mi capiterà di partecipare a qualche incontro pubblico ve lo segnalerò, con il tacito sottinteso che tale notizia non valga assolutamente da ricattatoria pressione a intervenire.
Non vi sottoporrò buone cause da sostenere, movimenti cui aderire o nemici da combattere. Lo scioglimento dei ghiacci polari o l’estinzione del babirussa mi rattristano, ma non solleciterò alcuna raccolta di fondi volta a evitarli.

Prendete dunque queste note come la Dichiarazione di Intenti di Citizen Kane. Con Charles Foster Kane si sa come è andata a finire. Nulla vieta che anche questa pagina venga prima o poi risucchiata nel vortice della vanagloria. Ma in quel caso la difesa sarà facilissima: lasciatela sepolta tra i milioni e milioni di pagine similari che dormono in quell’enorme Spoon River che è la rete, e dimenticatevene.