giovedì 23 dicembre 2010

Missione marziana - 11



Mi accorgo solo ora di non aver ancora fornito a tutti gli appassionati lettori che con trepidazione stanno seguendo la vicenda un'idea delle fattezze fisiche dei nostri eroi.
Accludo pertanto un ritratto dei due, realizzato dal famoso MacRaboy in occasione del sessantesimo genetliaco di Montague J. Brady.
Dall'immagine di grande maestria sono immediatamente deducibili sia la maschia e inflessibile volontà del colonnello, sia l'ineffabile grazia della sua compagna Aurore.
Spero che questo ritratto, oltre a soddisfare le aspettative delle innumerevoli agenzie di stampa che ne facevano pressante richiesta, alimenti ulteriormente l'entusiasmo dei sostenitori dell'impresa.
A tal proposito ricordo che ogni contributo è prezioso e benvenuto: si accettano tutte le maggiori carte di credito, Paypal, Postepay e prepagate in genere, nonché bonifici bancari e postali, assegni e versamenti in contanti. Per chi volesse poi trasferire su Marte somme di denaro o altri beni mobili (ponendoli così a certissimo riparo dall'occhiuto sguardo del fisco) si comunica che questo potrà essere effettuato in occasione del prossimo lancio, con costi di intermediazione sicuramente interessanti.

mercoledì 22 dicembre 2010

Missione marziana - 10


La notizia delle difficoltà in cui versa il nostro eroe ha suscitato in tutto il mondo un'ondata di commossa partecipazione. Immediatamente il nostro appello è stato raccolto, e già una prima schiera di volenterosi si è messa a disposizione per l'impresa di salvataggio, mentre altri si vanno aggiungendo in queste ore.

Da una casa di riposo statale del Vermont si è messo in contatto con il comitato l'ingegner Timoteo H. Fainthwater, colui che negli anni '50 mise a punto insieme con Werner von Braun un veicolo spaziale a propulsione nucleare, il cui prototipo fu esposto nel padiglione Tomorrowland della Disney. Il tecnico, ancora lucido e valido nonostante l'età ingrediente, ha messo a disposizione i piani di costruzione allora elaborati: un progetto senz'altro più avanzato dell'aeroproietto a metano di Monti.

Fainthwater è già in viaggio, accompagnato dalla sua fedele infermiera personale, alla volta dell'Italia, dove sovraintenderà personalmente all'opera di costruzione. Dalla Westfalia è in arrivo un carico di lamierati abbandonati nelle officine che costruivano le solidissime Trabant, mentre nella Russia ex sovietica si sta provvedendo al recupero del reattore dalla carcassa di un sommegibile nucleare in disarmo. Al momento è già stata identificata un'opportuna zona paludosa nella Maremma, ove verrà assemblata la nave cosmica al riparo degli oziosi e indiscreti sguardi della stampa.

Ma voglio intanto elencare i nomi di coloro che si sono già messi generosamente a disposizione dell'impresa come equipaggio: il maggiore Enrico Luceri, ufficiale della riserva nell'esercito clandestino borbonico, l'ingegner Massimo Pietroselli, romanista ed esperto a livello mondiale delle emissioni filateliche del Vaticano, il dott. Fabrizio Foni e la sua gentile consorte, clerici vagantes del sistema universitario europeo, particolarmente versati in tutti gli aspetti mostruosi della realtà contemporanea.

A questi di certo si uniranno molti altri: in attesa di ulteriori aggiornamenti il maggiore Luceri ci ha pregato di inserire in queste note un richiamo all'inno nazionale borbonico, che volentieri accludo in calce al post.

giovedì 16 dicembre 2010

Notizie dalla spazio - drammatiche! - 9


Dopo una lunga pausa dovuta alle difficoltà logistiche della spedizione, finalmente il colonnello Montague è riuscito a mettersi in contatto con la stazione di ascolto della Western Union ancora in grado di decrittare i suoi messaggi Morse.


Purtroppo la comunicazione è durata solo alcuni secondi, prima che una valvola dell'apparato si bruciasse, annegando la stentorea voce del nostro eroe nelle profondità dello spazio. Ma in quel breve tracciato di punti e linee è nascosto forse il più grande segreto della nostra epoca: dopo inenarrabili fatiche affrontate per superare la catena di monti innevati posti al limite della zona conosciuta di Marte, il colonnello Brady è riuscito a raggiungere le mura di una città, più antica di ogni altra conosciuta sulla faccia del pianeta rosso. Il nostro aveva appena cominciato a illustrare le meraviglie e le incredibili ricchezze che si schiudevano ai suoi occhi, quando il cedere del fortunoso collegamento ha precipitato tutti noi nell'incertezze e nell'angoscia. Perché proprio allora il collonnello stava accennando a una terribile minaccia che tra tanti splendori aveva scoperto, una minaccia che a suo dire metterà in pericolo la sopravvivenza del nostro stesso pianeta.


Le ultime frasi captate, non improntate al consueto ottimismo e virile baldanza del colonnello, bensì ombrate da un cupo senso di morte, hanno gettato in un comprensibile sconforto tutti gli ammiratori e sostenitori dell'impresa. Subito si è scatenata una caccia su eBay alla ricerca della valvola bruciata: ma quando questa è stata finalmente trovata in uno sfascio dell'Ohio, ogni tentativo di ripristinare il collegamento con il colonnello si è rivelato almeno al momento vano.


La coraggiosa Aurore Monti-Smith è già partita con un manipolo di volontari marziani alla sua ricerca. Ma prima ha lanciato una pressante richiesta d'aiuto al nostro pianeta, perché concorra in qualche modo al salvataggio. Si è subito costituito un comitato, che ho l'onore di presiedere, volto allo scopo di costruire un secondo aeroproietto e condurre una nuova spedizione di avventurosi sul pianeta rosso, per trarre in salvo il colonnello e approfondire i termini della sua scoperta. Invito pertanto tutti coloro che volessero collaborare a contribuire anche con piccole cifre alla raccolta, e insieme ad avanzare le proprie candidature a far parte dell'impresa.


Nell'attesa mi adopererò per comunicare tempestivamente qualsiasi notizia ulteriore potesse giungere dallo spazio profondo. Per aspera ad astra!

mercoledì 1 dicembre 2010

Buon Natale!


Dopo un certo tempo passato in altre imprese - Pirandello diceva che la vita o la vive o la si scrive, e qualche volta bisogna anche viverla, se non altro per poi poter narrare qualche cosa -eccomi di nuovo qui con le migliori intenzioni di riprendere il filo interrotto.
Tornando naturalmente ai miei soliti temi: per esempio "storie di balene e fiocinator, di donne ardite e di folli amor" come canta Ned Land nella versione cinematografica di 20000 leghe sotto i mari di Fleischer (che detto tra noi trovo molto più divertente dell'originale, non mi sentano i verniani doc).

A breve quindi vi aggiornerò sulle ultime notizie giunte dal pianeta Marte, dove i nostri due intrepidi esploratori stanno scoprendo sempre nuove meraviglie, accuratamente celate dai Men in Black della Nasa.

Intento però farò una piccola eccezione alle linee programmatiche del blog, di non tediare i lettori con fatui riferimenti alla realtà contingente, per esternare una mia posizione politically incorrect.

Un paio di giorni fa ho colto su un canale Rai un noto esponente verde di associazione di consumatori, che dopo un'appassionata arringa in difesa della moderazione e del pauperismo, condita di soverchie esclamazioni moraleggianti sulla corruzione della civiltà occidentale, ha concluso esortando con retorica trombonizia gli ascoltatori a incartare i prossimi regali di natale con fogli di giornale, in modo da attenuare il dispendio di legname.

Ebbene no, amici. Questo Natale non farò molti regali per motivi strettamente economici, ma quei pochi li avvolgerò dei più delicati fogli da regalo che potrò trovare: sapete, quelli con la porporina, i babbetti natale e le renne, i fiocchi di neve di bambagia. E li annoderò con nastri multicolori, incollerò le coccarde e aggiungerò un bigliettino con relativa busta, dove imprimerò qualche affettuosa parolina beneaugurante.

E la notte di Natale voglio che bussi alla mia porta proprio il vecchio dalla gran barba bianca, con le sue renne, le campanelle scintillanti e il sacco di pacchetti multicolori, accompagnato da un coro di carole. E non un becero con la tuta delle Poste, che mi consegni l'ultimo numero di Repubblica.

Per la difesa della foresta pluviale si prega di ripassare dopo la Befana.

sabato 6 novembre 2010

Dio benedica l'America! (e l'Inghilterra)


Vorrei qui rendere pubblicamente un elogio a due uomini della più pura tempra anglosassone, la razza di quei milord stravaganti odiati da Salgari, e per i quali però lui pure alla fine nutriva una sotterranea ammirazione.

Si tratta di Bill Richardson, governatore del New Mexico, e di Richard Branson, tycoon proprietario della Virgin Galactic, espansione spaziale della compagnia low cost Virgin.

Perché? Cominciamo dal secondo, miliardario inquieto, sportsman, ex hippy charmant, visionario aeronauta mongolfierista: è lui che sta realizzando la prima astronave privata della storia, alla faccia della Nasa, dell'Esa, dei Russi e dei Cinesi. Ci investe dei bei soldi, forse ne guadagnerà dieci volte tanti oppure no, ma comunque ci prova.

Branson invece è di razza burocratesca, di sacrestia di partito. Eppure ha avuto il coraggio di investire 200 milioni di verdoni nella costruzione di uno spazioporto a casa sua per l'astronave di quell'altro. Incurante delle proteste dei taxpayer, e del rischio concreto che il razzo gli possa ricascare in testa con un certo strepito.

Due uomini del futuro di una volta, insomma, che sarebbero piaciuti a Giulio Verne. Gloria a loro e a tutti i sognatori.

domenica 24 ottobre 2010

Domande e risposte.


Una cosa curiosa che capita spesso a un narratore, è che gli vengano poste domande sugli inizi del suo mestiere. Dico curiosa, perché immagino che nessuno chieda a un falegname quando e perché ha pensato di costruire la sua prima sedia, né a un capitano di mare quando abbia deciso di speronare il suo primo iceberg.

Invece sembra che lo scrittore debba in qualche modo rendere conto di come sia nata in lui questa stramberia. Da un lato la questione è lusinghiera, perché sottintende un qualche elemento di eccentricità nella cosa, dall'altro costringe ad arrampicarsi ogni volta sugli specchi per fornire una risposta almeno sensata, che non ci faccia insomma passare per narcisi o peggio per mammolette.

La difficoltà del rispondere sta in una sorta di sfasatura dello spazio-tempo, a cui in genere non si pensa.
E' infatti abbastanza ovvio, credo, che la scrittura cominci sempre dalla lettura. Ci si innamora di un certo tipo di storie e a un certo punto non se ne trovano più abbastanza, si ha la sensazione che manchi qualcosa: allora comincia a sorgere l’idea di aggiungerne noi al mucchio.

Si comincia dunque sempre dalla lettura, e prima e più si legge, prima e più viene voglia di scrivere. Ma il punto delicato è: “quali” letture? E anche, “quando”?
La lettura come tutti gli stimoli complessi, che siano sensoriali o intellettuali, costruisce la nostra visione del mondo per aggiunte e sottrazioni, ma ha i suoi tempi, legati al ciclo evolutivo. “L’isola del tesoro” ha un impatto diversissimo sul nostro immaginario a 10 anni, a 18 o a 25. Leggere Kafka a 16 anni ci avvia a una successiva interpretazione del mondo complessa, angustiata ma anche problematica. Farlo a 50 è solo un’esperienza intellettuale, intensa quanto si vuole ma che difficilmente modificherà una Weltanschauung ormai consolidata.
Il fascino ma anche il dramma della scrittura sta ne fatto che quando si comincia, in realtà si è già cominciato dieci anni prima. Io posso scrivere un romanzo di fantascienza a 20 anni soltanto se a 10 ho già letto “Dalla terra alla Luna” e a 15 Bradbury, Heinlein, Asimov ecc.

Ma che succede se non l’ho fatto? Nella maggior parte dei casi non c’è più niente da fare.
Si può tentare una terapia d’urto, costruendosi in fretta un bagaglio base di due-trecento opere fondamentali nel genere scelto (facendosi magari aiutare da qualcuno, e qui forse una buona scuola di scrittura può avere qualche utilità), stando però attenti a non affastellare materiale a caso, ma rispettando una elementare gerarchia di valore.

Mai affidarsi al supplemento libri di un quotidiano, però: è perfettamente inutile conoscere a memoria l’opera omnia di Paulo Coelho se poi si ignorano Borges o Marquez (mi è capitato con un mio alunno).
O leggere Moravia ma non Tolstoi, Pasolini ma non Manzoni, l’ultimo Strega ma non Joyce.
Insomma occorre un metodo, come in tutto. Se non altro per avere poi il piacere di violarlo e fare quello che ci pare.

lunedì 18 ottobre 2010

Ferali notizie.


Appena pochi mesi fa se ne celebrava l'ossessiva pervasività, al punto da suscitare nella critica il timore che il noir potesse fagocitare ogni altra forma, inglobando la letteratura come un Blob venuto dallo spazio nei B-movie degli anni '50.

E adesso invece corrono brutte voci sulla sua salute, lo si dà quasi sul catafalco. Non credo però che sia ancora il caso di mandare per il prete, e che il noir, e in genere la narrativa di tensione, sia prossimo a defungere.
Certo, alcuni segnali indicherebbero una qualche stanchezza, di autori e di lettori, e come per altri generi del passato anche per il noir potrebbe prima o poi suonare la campana. Ma per morire occorre il verificarsi di una condizione che a mio avviso non si è ancora realizzata, e che a suo tempo ben sintetizzò Nietzsche: Was vollkommen ward, alles Reife – will sterben!
Ossia, traducendo un po' a braccio, tutto ciò che è maturo e perfetto vuol morire.
Frase piena di suggestioni, ma anche sibillina: tanto che Karl Ernst Knodt giustamente la ricantò: Hat allein das Recht zum Sterben! Cioè "solo" ciò che è perfetto ha il diritto di morire.
Ora, affermare che il noir abbia raggiunto la sua completa maturità e perfezione mi sembra alquanto azzardato. A meno che non ci si arrenda all'idea che si tratti di un genere intrinsecamente minore, per il quale occorra accontentarsi di quello che passa il convento senza star troppo a disquisire, direi proprio che il Dante o lo Shakespeare del noir non siano ancora apparsi all'orizzonte.
Siamo ancora nella fase aurorale, in fondo è solo qualche decennio che è partita la grande ricerca. La macchina editoriale moderna è stata in grado di riempire questo spazio di migliaia di titoli, ma è una quantità che stenta ancora a farsi qualità assoluta. Questo non vuol dire che prima o poi non avvenga, e magari qualche delusione potrebbe anzi giovare, come la potatura rinvigorisce l'albero da frutto.
Allora verranno anche i capolavori, e il genere potrà estinguersi serenamente come un barbuto patriarca della Bibbia, davanti allo stuolo dei suoi discendenti.
L'importante è solo che ciò avvenga, al contrario dei timori di Eliot, con uno schianto e non con una lagna (ancora per rubacchiare qualcosa a un grande.)

sabato 16 ottobre 2010

Genere e livelli.


Mi trovo spesso a discutere dei rapporti tra narrativa di genere e letteratura "alta".

E' un tormentone a cui è praticamente impossibile sottrarsi, lettori o scrittori che ci si trovi a essere, per lo meno da un paio di secoli.

Da quando appunto la narrativa di genere è apparentemente nata. Dico apparentemente, perché sarebbe più corretto dire: da quando ha cominciato ad assumere una sua veste autonoma nel panorama narrativo.
Perché in realtà il "genere" è antichissimo, verrebbe da dire che è nato con i primi vagiti dell'umanità intorno ai fuochi delle caverne. O sotto le chiome degli alberi delle savane, a giudicare dagli ultimi ritrovamenti.
E spesso ripeto anch'io la vulgata, un po' per pigrizia e un po' per quieto vivere: il genere deriva dalla letteratura colta, ne assume temi e stilemi e poi li semplifica, li schematizza per adattarli a un pubblico di massa un po' sempliciotto e frettoloso. Un pubblico per intenderci che si troverebbe in difficoltà con il Macbeth, ma che invece può più serenamente godersi la Fiamma del peccato.
Insomma il genere sarebbe una sorta di Terzo Stato che si contrappone all'arroganza dell'Aristocrazia letteraria, le sfila la culotte e la riadatta a se stesso in forma di brache, più o meno simili.

In realtà però non sono affatto convinto che le cose stiano così. Credo anzi all'esatto contrario: il genere è il grande serbatoio, il brodo primordiale della narrazione, un deposito informe di personaggi, vicende, emozioni, da cui di tanto in tanto zampillano fuori opere che per caso o per maestria degli autori abbandonano il pentolone per assurgere ai piani nobili della cultura, attraverso un'azione di affinamento degli ingredienti.
Ma l'origine di tutto è sempre quella. E' dall'Opera dei Pupi che viene fuori il Furioso, non viceversa. Con buona pace della critica romantica e neo, il genio è ispirazione, traspirazione ma soprattutto attenzione a quello che già c'è.

domenica 10 ottobre 2010

Lo scrittore e i personaggi dello scrittore.


Ieri ero a Ravenna con Danila Coamastri Montanari ed Eraldo Baldini, ospiti di "Delitti & Detective: notte bianca per anime nere" (tra l'altro un bellissimo titolo, così chiasmatico e antifrastico) e ho sentito quella testa rossa e matta di Danila raccontare ridendo una gran verità.
Che più o meno era: "So benissimo che oggi vanno di moda gli investigatori problematici e un po' sfigati, ma io ho fatto il mio senatore charmant, ricco, nobile e in buona salute per il fatto che, dovendoci poi convivere per ore e giorni e anni, non volevo in mezzo alle scatole un qualche insopportabile menagramo."
Una gran verità, dicevo, che fa giustizia di un pregiudizio ingenuo ma largamente diffuso, che vuole gli scrittori travasino nei personaggi la loro percezione di se stessi, oppure peggio ancora un "altro" che essi vorrebbero essere.
Niente affatto, i personaggi sono soltanto quelle personae fictae che ciascuno di noi vorrebbe incontrare. E non perché necessariamente ci piacciano, ma anche perché magari ci dispiacciono, ci affascinano, ci terrorizzano, ma che comunque in qualche modo siano tanto interessanti da volerci passare insieme appunto ore, giorni e magari anni.
Al punto di voler rendere partecipi di tanto entusiasmo anche quelle povere vittime che sono i lettori, che ci perdonino.

martedì 5 ottobre 2010

Commercial - 5



Mercoledì 20 ottobre a Roma, alla libreria Koob di via Luigi Poletti 2, alle 18,30 andrò a parlare de La sequenza mirabile insieme con l'amico Luigi Milani.


Trattandosi di un racconto giallo-misterioso non verranno forniti particolari sulla sua trama, al più qualche suggestiva allusione. In compenso ci saranno molte divagazioni sull'eterna illusione di sfidare la sorte, il mondo del circo e dei circoli politici, le avventure di d'Annunzio a Fiume e una carrellata di personaggi singolari, "uommene scicche e femmene pittate".

Al termine si berranno analcolici e si sgranocchieranno patatine. Se anche venite solo per quello non mi offendo.
Magari per qualcosa in più potete vedere qui:

http://guide.supereva.it/giallo_e_noir/interventi/2010/10/la-sequenza-mirabile-di-giulio-leoni-–-un-giallo-dentro-a-un-giallo.



giovedì 23 settembre 2010

L'arte di farla lunga.


Giorni or sono discutevo con alcuni amici scrittori delle qualità di un'opera narrativa.
La questione era: esiste un qualche complesso di regole, soddisfatte le quali si può serenamente affermare di essere in presenza di un'opera d'arte?

Per certi aspetti sarei tentato di rispondere di sì, se non altro in omaggio alla profonda ammirazione che continuo a nutrire per la retorica classica, e tutte le sue successive declinazioni.
A patto però che tra le tante regole si segua per prima quella più importante, il prestare attenzione massima alla funzionalità di tutto ciò che si trascrive nel testo.
Perché a mio avviso è questo il punto centrale: un racconto non è mai in nessuna circostanza una copia fedele della realtà, per quanto veridici possano apparire fatti e circostante ivi riferiti. In ogni testo ciascun elemento è presente non in quanto mimesi fedele del corrispondente elemento nel mondo reale, ma solo perché deve svolgere una funzione. Ogni testo è soltanto un modello del mondo, quindi una sua sintesi. Se fosse una riproduzione esatta della realtà il narratore si avviterebbe nel paradosso di Borges, stilando una mappa talmente precisa in ogni dettaglio da finire per coincidere con il territorio rappresentato. Non quindi più una mappa, e quindi un modello, ma semplicemente la cosa.

Nel testo dovrebbe dunque esserci solo quello che serve ad assolvere a uno specifico scopo narrativo, e soltanto a quello. Altrimenti si cade ineluttabilmente in quella deriva che gli angli definiscono infodumping, e che da noi si potrebbe volgarizzare con allungare il brodo.

Per esempio, vi è mai capitato di trovare qualcosa del genere?

"Il senatore Marco Lucio Coglione si aggirava bel bello per la Suburra, quartiere tra i più malfamati della Roma imperiale, destinato ad accogliere soprattutto ladri e prostitute, sito alle spalle del Foro ma da questo isolato per tramite di un’alta muraglia fatta erigere da Traiano imperatore, vissuto dal 53 al 117 d.C.
Si arrestò in un angolo poggiando il piede su un gradino di travertino, la pietra calcarea di colore tra il bianco e il giallino in ragione delle diverse cave di provenienza, per lo più situate nelle immediate vicinanze della città. Dopo aver ripulito dai liquami il coturno, scarpa di pregio nata sulle scene ma adottata presto dalle classi patrizie e caratterizzata da un’alta suola di legno, rimosse anche alcuni schizzi di fanghiglia dal costosissimo bordo purpureo della sua toga e si rimise in cammino.
Fu allora che si imbatté in Giacinto il reziario, aitante membro di quella categoria di gladiatori che negli scontri one on one nel circo si battevano contro i mirmilloni armati solo di un tridente e di una rete, da cui il loro nome. Mentre i loro avversari erano protetti da corazza ed elmo, e disponevano anche di un gladio, spada corta e tozza, ed erano detti mirmilloni perché ricordavano nell'aspetto dei grossi pesci, anche se taluni filologi si discostano da tale etimologia preferendone altre.
-Ave, Giacinto!- disse il senatore Marco Lucio Coglione, salutando calorosamente l'amico con un gesto beneaugurante caratterizzato dal braccio destro levato in alto e la mano tesa a dita unite, saluto ripreso poi di recente da diverse formazioni politiche di orientamento conservatore tra cui il Fascismo e il Nazismo, che però se ne distingue per aver introdotto la variante del braccio piegato all'altezza del gomito.
-Ave, Coglione!- rispose Giacinto il reziario ecc. ecc."

Converrà facilmente il lettore su come si possa in tal guisa raggiungere ad abundantiam quelle sette-ottocento pagine che costituiscono ormai la norma di tanti celebrati romanzi, specie di origine oltremare. Ma serve anche a qualcosa il farlo? La discussione rimane aperta.

domenica 12 settembre 2010

Il romanzo sceneggiato.


La caratteristica più appariscente della moderna narrativa di genere è il suo legame con il cinema. In alcuni casi tanto stretto da generare il dubbio che si sia alle soglie di una nuova mutazione del genere stesso: per esempio in un videogioco, dove diventerà sempre più difficile stabilire se prevalga la narrazione o l'immagine.
Questo avvicinamento non è di per sé un fenomeno recente: tra romanzo e cinema è sempre esistito uno scambio, ma di segno diverso col passare del tempo.
Fino alla metà del XX secolo è stata la letteratura a fornire al cinema personaggi e situazioni, un intero corpus di trame, valori e ideologie. Poi progressivamente è stata la letteratura a importare materiali sempre più corposi, fino ad adottare addirittura le tecniche stesse dell'amico-concorrente.
Questo ha portato a sviluppare romanzi di genere, soprattutto nell'area nordamaricana, che sembrano sempre più una sceneggiatura. Non tanto e non solo perché molti di essi nascono già "pensati" in vista di una riduzione cinematografica, quanto perché spesso essi sono già delle sceneggiature semicomplete.
Nel senso che condividono con la sceneggiatura la stessa struttura formale: un testo dove una vicenda viene ridotta solamente a ciò che si vede e ciò che si sente. Nella sceneggiatura infatti non esiste spazio per i "pensieri" dei personaggi: a meno che non si ricorra all'espediente della voce fuori campo, comunque poco diffusa negli ultimi tempi. In un film il pensato deve essere ricostruito dallo spettatore attraverso gli atti e le parole dei personaggi.

La stessa sembra essere diventata una caratteristica del genere, la rimozione del "pensato" dalla pagina. Appare sempre più evidente come un numero crescente di scrittori sembri ritenere che la trascrizione del pensiero costituisca un ritardo, un intralcio all'azione che si è deciso essere la caratteristica fondamentale della narrativa di genere.
A rigore non sembra esserci una motivazione estetica del fatto. Spesso anzi la rapidità dell'azione, aiutata da un sistematico ricorso a elementi topici che equivalgono a frazioni di "pensato" preconfezionate, finisce per tradursi in un semplice impoverimento della narrazione. Non si ottiene alla fine la cinestesia che magari si aveva in mente, ma solo il "racconto di un racconto".
Insomma la narrazione moderna sembra aver sposato le posizioni più radicali della fenomenologia, trasformando ogni racconto in una sorta di verifica in laboratorio delle teorie di Husserl.
E' una situazione che a me pare molto interessante, e che andrebbe analizzata più a fondo: sia per portarla alle sue estreme conseguenze, o per contrastarla con tutte le forze.

mercoledì 1 settembre 2010

Sinfonia - I tre tempi della creazione.


Normalmente la costruzione di un testo narrativo attraversa tre fasi, come nella più classica delle composizioni musicali.

Il primo movimento è aereo e leggero, un largo con brio: la mente sfarfalla piacevolmente tra idee diverse, trascinata qua e là dall'umore del momento senza alcun vincolo. Alla faccia delle mode, degli indirizzi editoriali e dei lettori distratti, tutto un universo di realtà potenziali si squaderna davanti e la fantasia si teletrasporta senza sforzo dall'una all'altra con altrettanta disinvoltura del comandante Kirk: tutte le leggi della termodinamica vengono allegramente violate, epoche e spazi lontanissimi si fondono in una carnevalata kitsch e irresistibile.

Poi una delle infinite possibilità comincia a sgomitare e emerge dal brodo primordiale, annichilendo i rivali con tutta la ferocia della lotta per la sopravvivenza: spermatozoo e ovocita si incontrano e comincia il lavorio perché l'embrione diventi un essere autonomo. Sono i "nove mesi alla puzza" di cui parlava il Belli, una discesa e un lungo stazionamento all'inferno, un lento assai doloroso e interminabile. Le parole, che fino a un attimo prima erano una sorta di deliziose bajadere pronte a soddisfare ogni nostro più piccolo desiderio, cominciano a ribellarsi peggio di un soviet di minatori del Caucaso. Bisogna tenere insieme tutte le fila della trama, cercare di dare un senso alle intuizioni che in un primo momento sembravano così efficaci. La storia che ci aveva sedotto, i personaggi inventati con tanta cura cominciano prima a mostrarsi noiosi come vecchie zie che ripetono sempre le stesse cose, poi importuni come venditori ambulanti, infine odiosi come svaligiatori notturni. La mente che vorrebbe evadere su altre storie si dibatte ancorata a questo blocco di cemento che ti trascina sempre più giù. Famiglia, relazioni sociali, financo i più immediati interessi terreni da curare si diperdono in una nebbia lattiginosa, una pappa su cui grava il continuo rischio della sconfitta. E mentre si combatte per arrivare alla parola Fine, è adesso che spesso nascono gli Incompiuti, relitti alla deriva per abbandono del campo.

Infine il terzo movimento, che si annuncia con un sofferto di archi, legni e tromboni, peggio che nel canto di morte e d'amore di Isotta. Tutte le tossine accumulate durante i mesi di lavoro travolgono le ultime difese immunitarie poste dalla natura a difesa della salute mentale, ed esplode dentro un fastidio viscerale per quello che si è fatto, che ormai si vede come un corpo estraneo, comunque un aborto di cui ci si deve liberare prima possibile, prima di impazzire definitivamente. Tutto sembra sbagliato e incerto, e ci si difende dal tragico senso di inadeguatezza e sconfitta solo ricomnciando a pensare a qualche nuova impresa, che cancellerà nella nostra mente ogni ricordo della vecchia, sovrapponendo alla sua debolezza reale una nuova forza sognata.

Comunque, come si suol dire, sempre meglio che lavorare.

giovedì 19 agosto 2010

2012


Da un po' di tempo i media sono in preda a un nuovo tormentone. Sembra dunque che il 21 dicembre del 2012 si avvererà un presagio continuamente riaffermato nei secoli, e mai finora verificato: la fine del mondo.
Dopo il monaco Rodolfo il Glabro, Malachia con i suoi papi alti e bassi, Nostradamus e le sue Centurie, Joseph Smith e l'angelo Moroni, Fatima e i suoi segreti, il virus Y2K, Greenpeace con il buco dell'ozono, lo scioglimento dei poli e la scomparsa delle balene, adesso tocca niente meno che ai Maya di romperci gli stivali con l'idea che tutto finisca in un botto.
Al riguardo non esistono elementi per valutare la maggiore attendibilità dell'estremo annuncio rispetto ai precedenti. Nell'attesa comunque suggerisco di prestare attenzione alle parole della marchesina insidiata dal vecchio Corneille. Che cercava di spuntarla insistendo sul fatto che presto anch'ella sarebbe divenuta vecchia come lui:

J'ai vingt-six ans, mon vieux Corneille,
Et je t'emmerde en attendant.


Appunto. Magari sarà anche vero, ma nel frattempo...

martedì 27 luglio 2010

Commercial - 4



Dopo alcuni giorni di incertezza, dal 20 luglio è davvero in libreria la Sequenza mirabile. Quanto prima vi racconterò da dove viene il misterioso sistema che è all'origine della storia.
Ma per adesso mi limito a trascrivere qui l'inizio del romanzo, per chi avesse voglia di farsene un'idea.











Non c’è alcuna ragione perché vincano i buoni. E infatti normalmente non accade.

Però alla fine non vincono nemmeno i cattivi. È certo anzi che i cattivi finiscono sempre male.

In ogni caso, trionfino i cattivi o i buoni, nessuno vince mai niente.



1

Ho sempre amato i personaggi sinistri. Meglio ancora se perfidi, soprattutto le donne. Perché, siano gli Dei o un destino beffardo, qualcuno assegna proprio a loro il compito di movimentare le nostre vite, strappandole alla noiosa palude quotidiana.
Mi affascina il fatto che i soggetti non si limitino a pochi modelli base, ma che al contrario si articolino in una vasta congerie di tipi, famiglie, specie. In ordine alfabetico da Alieno a Zombie, passando per Cannibale, Mentecatto, Orco, Paranoico, eccetera. La S ne rubrica addirittura più d’uno, il Serial Killer, il Sadico e lo Squartatore, oltre allo Scienziato Matto. Tra tutti le mie simpatie speciali vanno proprio a quest’ultimo, che è detto anche Genio Folle. Pure l’Incendiario o il Terrorista Islamico non sono male (quest’ultimo leggermente inflazionato dopo il fatto delle Due Torri), ma il Genio Folle ha una marcia in più rispetto ai suoi compagni d’avventura: la superiore perversione dell’intelletto applicato al male, il vertice della scala evolutiva che si rivolta e lavora per il caos, ripetuto in un’infinita varietà di ibridazioni.

In genere il Genio Folle finisce male: pugnalato, strangolato, crivellato di pallottole, schiacciato dal crollo di muraglie, precipitato in voragini, impiccato, disperso in labirinti o sotterrato in anguste miniere, affogato in liquidi caustici, in acidi, in alcoli, in lordure, lave incandescenti. O anche triturato in ingranaggi immani, fulminato dall’alta tensione, ibernato in remoti laboratori artici, o ancora corroso da sublimati, evaporato da arsura di gas o vampa solare o esplosione da polveri, dinamite, fulmicotone, fissione atomica. Trascinato nel vuoto sidereo su razzi in fuga, o sommerso in affondamenti di nave, abbrancato da piovre giganti, stritolato da piante carnivore, dilaniato dal Kraken, sbocconcellato da fiere rampanti o sminuzzato da granchi, morsicato da murene, sbavato da cani rabbiosi, morso da serpenti o punto da scorpioni, roso da termiti, afferrato da cadaveri mal ridesti. Talvolta giustiziato con tutte le garanzie di legge, ma più spesso sprezzantemente eliminato sul posto con asce e scuri, mazze, spadoni a due tagli, arpioni, bombe a mano, torce a combustione naturale o a gas. Irradiato da raggi Roentgen, ultravioletti, gamma e alfa in storie di impianto realistico, oppure dai theta che rendono invisibili e dagli zeta che rimpiccoliscono, in quelle di pura fantasia.
E poi ce n'è uno che per me è il massimo: trafitto dalla spada di una statua di un enorme carillon in cima a un campanile pseudogotico nel Connecticut. Trattasi in questo caso del Nazista, ma vale ugualmente. Solo a Orson Welles poteva venire in testa una cosa del genere, ma Welles è lui stesso un Genio Folle e dovrebbe stare nel catalogo.

Gettai un’occhiata allo schermo del computer, in attesa che il sito di Morningstar desse la chiusura della borsa a Tokio. E intanto mi chiedevo dove collocare Ermete Cimbro e sua figlia. Lui evocava molti dei parametri del tipo in questione, ma senza la torbida grandezza che sempre lo accompagna. Se mai eravamo più nel Maniaco, così a prima vista. Per il suo aspetto in generale ma soprattutto per i discorsi, il modo di scrutare la figlia tra adorazione e sgomento, l’atto incongruo di rassettarsi di continuo la piega dei calzoni. Per le lunghe occhiate lanciate alla pietra cremisi del suo anello, una specie di divinazione mistica. E anche per l’anello, da capo tribù del Congo quando era ancora belga.
La figlia suggeriva invece maggiori possibilità di ricoprire con successo ruoli estremi. Sopra i trenta, forse più spigliata e chiacchierina della Dark Lady classica, ma comunque intrigante. Bella, decisamente, in nulla penalizzata da una sottile asimmetria nel gioco degli arti e negli angoli generati dai piani del volto, che pure eludevano la misura aurea di una geometria perfetta. Con la sua pelle bianca e delicata, appena picchiettata di efelidi sugli zigomi, in singolare contrasto con l’incarnato olivastro dell’uomo, le mani armoniche dalle unghie acuminate e vampire, a fronte di quelle paterne invece massicce e animate da una forza segreta e iugulatoria, gli occhi caldi nerissimi di contro allo sguardo glauco e mortifero di lui.
E poi c’erano quegli incredibili capelli rossi naturali, un mogano profondo, erotico. Il rosso delle eroine dei fumetti, mai visto. Sembrava uscita da una tavola di Milton Caniff, con tanto di retinatura per i chiaroscuri.

Non è che brillassero per concisione, e nel raccontare tendevano ad accavallarsi e a darsi sulla voce. Cercai nelle tasche una sigaretta per aiutarmi a seguire la storia.
Le cose, sfrondate delle divagazioni, erano queste: nell’autunno del 1924 i Sette Nani, celebri acrobati dell’epoca, erano morti nel corso di uno sfrontato esercizio senza rete. E un certo Aristotele Cimbro, loro parente, era stato ritenuto dall’opinione popolare responsabile del fatto.
I Sette Nani comunque non erano nani e non erano sette. Quanto al numero se ne contavano appena cinque, ed il totale era raggiunto solo grazie a due generici del circo, per evidenti motivi simbolici. Le due comparse, in identica livrea circense di mantello e mutandoni cilestrini, entravano con loro nell’arena confondendosi nel mucchio, poi ascendevano alla meglio fino ai trapezi e lì se ne restavano defilati, inerti e ben aggrappati alle corde, senza guardare troppo in basso a scanso di fastidiose vertigini.
Quanto poi alla nanitudine, essi in media svettavano verso i sei piedi inglesi, che non è poco per gente obbligata alla leggerezza, ed era misura tutt’altro che disprezzabile in quegli anni. Erano coronati inoltre dall’alone di una grande ricchezza, confermata da un vortice di auto, abiti di gran taglio e belle donne al seguito.
Così, quando in quel novembre malinconico occorse il ferale accidente, di Nani ne morirono soltanto quelli veri, non essendoci alcun motivo per una disgrazia più grande. Ma nell’infernale parapiglia che s’accese alla caduta di tutto il mazzo anche i due, che avevano schivato il gran viaggio, furono conteggiati in morte come lo erano stati in vita. Parenti e amici non ritennero di dover smentire un’universale notorietà la cui correzione avrebbe richiesto noiose spiegazioni, e ancora oggi una lapide sul loro sfarzoso mausoleo al Monumentale di Milano recita “I Sette Nani Lassù Volteggiano”.
Aristotele Cimbro era all’epoca dei fatti impiegato nel Gran Circo Bandini, quello appunto dove perigliavano i Sette. Svolgeva non meglio definite mansioni amministrative, aiutava a montare e smontare il telone, accudiva gli animali anche più pericolosi, intratteneva i vecchi della carovana nei loro momenti di logorrea. Inoltre manuteneva, oliava e rappezzava gli attrezzi di fantasisti e funamboli e ne verificava viti e rinforzi, tentando di assicurare a quell’equivoca ferraglia una stentata sopravvivenza.
Caduti i Nani, proprio per la rottura del cavo che reggeva tutta la baracca, subito fu additato alla pubblica infamia: oltretutto non pare che godesse di molta stima, avendo nomea di sottaniere e giocatore, frequentatore assiduo sia di postriboli che di tutti i tavoli verdi, tutte le bische e tutti i casinò che i suoi limitati mezzi gli permettessero di raggiungere. E anche al di là di questi, sempre se c’era da dar credito alle voci.
Una rapida inchiesta accertò che i Nani avevano tirato le cuoia per vanagloriosa disattenzione, e non venne formulata alcuna imputazione ufficiale. Il Cimbro restava però gravato dai macigni di un’accusa non detta. Ma non languì a lungo nella tristezza. Si licenziò dal circo, quasi avesse voluto cancellare così il ricordo della colpa, dandosi a peregrinazioni incerte, forse all’estero, di cui poco si era potuto ricostruire. Evaporò in una dimensione vaga, tra riservatezza e fuga, interrotta da stentate cartoline fino alla tragica morte. Avvenuta due anni dopo in un albergo della Costa Azzurra, a seguito pare di un tentativo di rapina.
Da essere vivente si trasformò prima in un caso esemplare di giustizia divina, poi in aneddoto. La polizia francese aveva svolto una breve indagine senza approdare a nulla. Le sue cose, insieme con alcune carte, furono restituite tramite autorità consolari alla famiglia, che allora viveva a Milano. Un impiegato frettoloso era giunto da Roma con un baule di vestiti e un plico sigillato per adempiere le formalità della consegna. Si sperò che l’uomo fosse latore di qualche particolare inedito, che portasse luce sulla vicenda: ma il funzionario s’era stretto nelle spalle, enigmatico e silente come ogni messaggero d’oltretomba.

«Aristotele Cimbro era figlio di Egisto, morto prima della Grande Guerra. Aveva due fratelli, Evandro e Ariodante» disse lei.
«Scusi?»
«Ariodante, mio padre. Morì nel '57, vittima della terribile epidemia di influenza asiatica. Una tragedia mondiale» precisò lui, con puntigliosità storico-anagrafica.
«Ah, certo.» Feci un rapido calcolo: «I Nani invece nel ’24. Più di ottanta anni fa. E poi che è successo?»
Intervenne di nuovo lei. «Tutti i suoi effetti personali furono riconsegnati a Evandro, il maggiore dei fratelli superstiti. Papà allora non era ancora nato.»
Colsi un’occhiata infastidita verso il genitore. Ovvio che non essere ancora nato aveva poi determinato delle difficoltà, e la cosa non era stata ancora del tutto perdonata. Segnai “Evandro” su un post-it. «Evandro, fratello di Aristotele e di suo padre Ariodante. Giusto?»
«Tenne ogni cosa per sé. Non si è mai sposato e non ha avuto figli.»
«Chi?»
«Evandro Cimbro, naturalmente!»
Cominciavo a perdere il filo. Aggiunsi sul post-it un abbozzo di albero genealogico, per sicurezza. I Cimbro tendevano a ripetersi uguali nelle varie generazioni, solo con piccoli scarti nei nomi di battesimo, tutti più o meno arcaicizzanti come una stirpe da tragedia greca. O i Luigi di Francia, un altro incubo.
«Morì nel ’45, in Svizzera. Era riparato lì, sa i tragici eventi bellici… zio Evandro era stato di simpatie, come dire, discutibili, alla luce della nostra moderna sensibilità…» ritenne a quel punto di spiegare lui. Allora poco più che un bambino, ricordava come un sogno quei giorni concitati, lo sconcerto in famiglia, i discorsi dei grandi dietro le porte chiuse. Il senso confuso che fosse avvenuto qualcosa di irreparabile.
«Nel ’44 si arruolò nelle SS italiane, col grado di maggiore. Lei capisce che dopo il 25 aprile…» chiarì la figlia.
Capivo benissimo. Un uomo di carattere. Poco incline a secondare la mutevolezza dei fronti. Tratteggiai mentalmente un’immagine, completa di corrusche mostrine a testa di morto. «La famiglia non ha saputo più nulla. Fino all’anno scorso. È arrivata una comunicazione dell’Unione Banche Svizzere. Ci hanno cercato loro, avrà sentito, la questione dei conti aperti dai profughi durante la guerra…»
Mi sembrava infatti di ricordare qualcosa. I soldi dei deportati, soprattutto. Che quei paraculi degli svizzeri si sono tenuti. C’era stato uno scandalo, si erano messi di mezzo gli ebrei americani. Alla fine era dovuto intervenire il governo per costringere le banche a ridare qualcosa.
«Ci hanno restituito il contenuto di una cassetta di sicurezza. Qualche oggetto di valore e… alcune carte.»
«E’ tutto molto interessante. Ma cosa posso fare per voi? Non ho capito esattamente…»
Si lanciarono una rapida occhiata. «Vorremmo che svolgesse un’indagine.»

lunedì 19 luglio 2010


Ho aggiunto recentemente un pezzo relativamente raro alla mia panoplia, la Space Pilot Nuclear Missile Gun: un bell'esemplare di arma da fianco prodotta una cinquantina di anni or sono dalla Merit of England.
La Merit era una piccola fabbrica di munizioni nucleari, che per un breve tempo estese la sua produzione anche alle armi leggere per armigeri spaziali. Meritoria nel nome e nei fatti, la Merit è nota soprattutto per aver armato gli equipaggi delle navi stellari nel periodo in cui l'Inghilterra, dietro la spinta della mai troppo lodata British Interplanetary Society sembrava avviata a primeggiare nella colonizzazione del sistema solare.
Le sue armi furono adottate anche dal mitico esploratore Dan Dare, prima che il collasso dell'impero costringesse i figli di Albione a ripiegare su attività meno rischiose quali il cricket, le bevute al pub e le partite di calcio in tv.
L'esemplare in questione viene dalla demolizione di un vecchio astrocargo, ed è stato trovato nel quadrato ufficiali insieme con altri reperti e documenti d'epoca, andati purtroppo dispersi all'incanto.

sabato 26 giugno 2010

Il romanzo McDonald's




A prescindere dai gusti, il BigMac è comunque un capolavoro dell'industria dell'intrattenimento, prima ancora che di quella alimentare. E' infatti ampiamente provato da molte ricerche socio-culturali come la gran maggioranza dei suoi voraci consumatori non vi si getti sopra per soddisfare il sano istinto della fame: al contrario, la sua funzione più profonda e segreta è proprio quella opposta di stimolare l'appetito anziché placarlo, come ogni droga che si rispetti.

Ma come funziona? Trattandosi di un prodotto destinato programmaticamente a grandi masse indistinte di consumatori, privi di marker nazionali, la sua base è costituita da elementi largamente diffusi e conosciuti nel mondo: carne di manzo, pane di grano, verdure in uso in ogni continente. Questo per generare un clima di familiarità e di sapori attesi: il trucco consiste nell'aggiungervi degli "appetizer", degli esaltatori del sapore ottenuti con una miscela di sali, grassi e spezie che ne determinano il risultato finale. E la conseguenza è che ci si alza dal tavolo momentaneamente pacificati, ma indotti in realtà a tornarvi quanto prima per riprovare la stessa dolce gratificazione.

A ben guardare, non è che la letteratura di massa funzioni in modo troppo diverso. Anche qui compaiono sin dalle origini alcune caratteristiche similari: a differenza della scrittura “alta”, dove il testo si pone programmaticamente come un unicum finale relativo a un determinato complesso di domande esistenziali (quando Proust affronta il tema del rapporto con il passato, o Dostoevskij quello della colpa, o Mann il rapporto tra malattia e creazione estetica, lo fanno intenzionati a “concludere” la riflessione intorno a quei temi, non certo ad aprirla), nel caso della Trivialliteratur lo scopo dello scrittore non è invece quello di fornire al lettore un insieme di "risposte" intorno a un tema scelto, quanto semmai quello di suscitargli continue "domande", perché il ciclo scrittura-pubblicazione-lettura sia continuamente alimentato e potenzialmente inesauribile.

Proseguendo nella metafora, insomma, lo scrittore di massa non si pone assolutamente il problema di saziare il suo lettore, ma al contrario di “fidelizzarlo” al suo prodotto, ingenerandogli un desiderio ricorsivo degli stessi sapori.
E la formula è molto simile a quella messa a punto dai maghi californiani della polpetta. Nel caso della letteratura di massa (ossia rivolta a un lettore non specialistico e potenzialmente indifferenziato) alcuni degli appetizer sono ben noti e scoperti: l'uso di personaggi seriali, il ricorso a situazioni topiche ben note al lettore, l'aggancio a eventi cronachistici che abbiano colpito in epoca recente la sua immaginazione, il far leva sulle paure, sui desideri o semplicemente sulle mode del momento.
Altri, come gli ingredienti segreti del panino, sono più coperti e sfumati: uno per tutti la leva esercitata su alcuni condizionamenti ideologici diffusi nei presumibili utenti, come la vulgata ecologista, la paura della pervasività assoluta delle organizzazioni criminali, l’ineluttabile degenerazione di ogni Potere in Tirannide.

Comunque la si pensi, sono ormai più di due secoli che questo scontro tra fast food e haute cuisine va avanti senza esclusione di colpi, e non è detto chi la spunti, alla fine. Personalmente tirerei per Proust, ma se devo essere sincero, anche un bel paninazzo succulento…

giovedì 24 giugno 2010

Notizie dallo spazio - 8


Dopo alcuni giorni di preoccupante silenzio, il centro d'ascolto della Western Union in Arizona ha ripreso a ticchettare, captando un nuovo messaggio dei nostri eroi.
Grandi nuove si annunciano! Mettendo a frutto la sua vasta esperienza di scienziato ed esploratore, il colonnello Brady sta redigendo un imponente rapporto sulla caratteristiche fisiche, politiche e sociali del pianeta Marte, che si preannuncia come l'opera definitiva che sgombrerà una volta per tutte il campo da decenni di artata disinformazione.
Sapremo così dei popoli che lo abitano, apprenderemo le meraviglie tecniche della sua enorme canalizzazione, potremo godere delle sue ricchezze artistiche e dei risultati del lavoro dei sui scienziati e filosofi: un intero scrigno di stupefacenti scoperte sta per schiudersi davanti ai nostro occhi!
Nelle more di tanta opera la bella Aurore si è subito impegnata nel terzo settore, aprendo tra l'entusiasmo delle signore marziane la prima sezione femminile transterrestre del KKK.
L'inaugurazione della sede, sita in una delle più eleganti avenue della città di Khandoria, è stata occasione per l'elezione di Miss Klanett, un concorso di bellezza che si avvia sin d'ora a cenfermarsi uno degli appuntamenti mondani più seguiti dell'anno.
Nella circostanza la Monti-Smith ha messo in luce le sue virtù di intrattenitrice, deliziando il numeroso pubblico con la sua grazie e bellezza incomparabili.

sabato 12 giugno 2010

Alla Locanda dell'ammiraglio Benbow.

Pensa qualcuno che la narrativa di genere sia scaturita pressoché completa dall'opera di Edgar A. Poe, come Minerva armata dalla mente di Giove.
Oppure, cosa che a me appare più probabile, che sia il lungo frutto delle leggende e dei cantari con cui i nostri antenati indoeuropei addolcivano le veglie intorno al fuoco nel corso delle loro migrazioni. Oppure ancora che sia invece diretta erede di quei fogliettoni che a partire dalla rivoluzione industriale hanno coinvolto masse sempre più vaste nel gusto per l'avventura e l'insolito, complici le nuove meraviglie che la scienza moderna andava scoprendo con dovizia.
Sia l'una cosa o l'altra, certo è che nell'eterogeneo mondo del giallo, del nero, dell'orrore, della fantascienza e del fantasy si avverte pur nella diversità di temi e stili una qualche aria di famiglia: il fatto di essere tutti figli di uno stesso desiderio d'avventura.
E a volte mi sorprendo a pensare come sarebbe bello se esistesse davvero da qualche parte una Jamaica Inn, o una Locanda dell'ammiraglio Benbow, o magari una Taverna dei Sette Peccati: un luogo insomma dove tutti gli appassionati di genere, che ne siano scrittori, lettori o semplicemente curiosi, potessero capitare di tanto in tanto per incontrare i loro simili. Così, senza alcun limite o impegno, come si capita talvolta inattesi in casa di amici.
Un astroporto sugli anelli di Saturno sarebbe immagino un progetto troppo ambizioso, ma almeno un caffé da qualche parte? Certo, esistono una marea di siti virtuali, per tutti i gusti e anche troppo affogati da visite e commenti: ma volete mettere il fascino dello spazio e della materia reali? Oltre a quello dei suoni, della vista, e magari gli ineffabili aromi di esotiche bevande come l'immortale Gin-sling (quattro parti di gin e una di quel che vuoi)?
Penso proprio che dovremmo trovarlo da qualche parte, prima o poi, un luogo di tal sorta dove portare le nostre maschere e pugnali. Magari già esiste, e può anche darsi che vi capitino cose come quelle illustrate nel filmetto che vi accludo (l'improbabile commento in russo aggiunge un tocco esotico alla faccenda).
Ma l'uomo forte non si lascia fermare sulla sua strada da queste piccole sciocchezze, no?

venerdì 11 giugno 2010

Commercial - 3


Qualche anno fa mi capitò, per una di quelle coincidenze che sono l'essenza stessa della vita (ma che pare invece vadano evitate nelle narrazioni, almeno a sentire gli editor e i maestri di scrittura più avvertiti) di avvicinarmi al mondo colorato dei giocatori d'azzardo.
E soprattutto al settore variegato e pittoresco degli inventori di metodi per vincere al gioco: una strana categoria di sognatori irriducibili, in bilico tra il genialoide e il matto scatenato, animati dal desiderio di dominare le ferree leggi del Caso e piegarle alla loro superiore volontà.
Per qualche motivo queste figure di cercatori dell'impossibile mi hanno sempre attratto: pensavo prima o poi di scriverci qualcosa e il poi è arrivato. Il risultato è La sequenza mirabile, che uscirà in tutte le librerie il 6 luglio p.m.
Il frate che vedete in copertina in realtà c'entra solo marginalmente con la vicenda, ma evidentemente ha colpito la fantasia dei grafici della Mondadori a tal punto da privilegiarlo sugli altri personaggi: scienziati pazzi, donne misteriose e bellissime, terribili assassini, originali matematici, alchimisti sconclusionati e sulla sfondo anche il divino Gabriele d'Annunzio, in qualche modo tirato dentro nella vicenda.
Insomma una bella compagnia: ma che, per citare la quarta: ...non immaginano gli incauti che non è il numero, ma il Male a dominare la sequenza mirabile...

sabato 5 giugno 2010

Bomba! - 2

Ho appreso da poco che anche il Myanmar vuole dotarsi di un armamento nucleare. Confesso che sulle prime ho avuto qualche difficoltà a sistemare sull'atlante il paese, al di là di una vaga reminiscenza sud-est-asiatica. Ma poi con viva emozione ho ricollegato il nome esotico alla fascinosa Birmania: terra di misteri e di emozioni salgariane quanto mai, a cominciare da quella Città del Re lebbroso, che se non sbaglio Emilio dispone appunto da quelle parti.
E subito dopo mi è tornata alla mente la marcetta del colonnello Bogey, che dedicò tanti sforzi a edificare un ponte sul fiume Kwai nelle stesse zone: sfido chiunque sia nato nei '50 a non averla fischiettata almeno una volta. Del resto quel ponte di legno e bambù era già allora la dimostrazione che se si vuole si può fare molto, anche con mezzi limitati come pare siano quelli del paese.
L'idea che dopo la bomba capitalista, quella sovietica, quella cino-comunista, la bomba sionista e quella islamica se ne possa avere anche una ispirata alla filosofia buddhista mi intriga: quale miglior prova della duttilità di tale ordigno, ingiustamente calunniato da certa stampa al servizio delle lobbies della dinamite e del fulmicotone?
Per i più giovani accludo un filmato con la musichetta in questione, nel caso vi venisse voglia di sfilare a passo di marcia in qualche jungla.

martedì 1 giugno 2010

Commercial - 2


E' appena comparso nelle edicole Sul filo del rasoio, un Supergiallo Mondadori di tutto rispetto: è una singolare antologia di gialli futuribili, scritture insomma in cui si cerca di coniugare noir, mistero e fantascienza.
Ventidue racconti, e tra questi il mio Malasanità, in cui si narra di un confronto all'ultimo sangue tra un'invasione aliena e il nostro Servizio Sanitario.
Con esiti del tutto imprevedibili.
Se avete occasione di buttarci un occhio fatemi sapere.

lunedì 31 maggio 2010

Bomba!

Pare che il governo russo abbia suggerito a Obama di chiudere la falla sul fondale del golfo del Messico con una carica nucleare.
E sembra che anche loro siano ricorsi allo stesso metodo almeno tre o quattro volte, in analoghe circostanze, con ottimi risultati.
La notizia mi ha confortato, facendomi tornare per un attimo ai dolci ricordi di giovinezza, quando nella calde giornate estive ci si abbronzava allegramente alla luce delle esplosioni atomiche nell'atmosfera.
Giorni indimenticabili, in cui era possibile leggere su Scienza e Vita del progetto di scavare un nuovo canale di Panama a colpi di bombe H, o di rendere fertile il Sahara facendo fare un giro al Nilo (sempre con lo stesso metodo).
Ahimè, allora si poteva ancora sperare che un giorno la fantasia sarebbe davvero andata al potere!
Vi accludo a seguire una poesia e un filmato sul tema di Gregory Corso, uomo che meglio di tanti altri ha saputo interpretare lo spirito di quei giorni.

BOMB

Budger of history Brake of time You Bomb Toy of universe Grandest of all snatched sky I cannot hate you Do I hate the mischievous thunderbolt the jawbone of an ass The bumpy club of One Million B.C. the mace the flail the axe Catapult Da Vinci tomahawk Cochise flintlock Kidd dagger Rathbone Ah and the sad desparate gun of Verlaine Pushkin Dillinger Bogart And hath not St. Michael a burning sword St. George a lance David a sling Bomb you are as cruel as man makes you and you're no crueller than cancer All Man hates you they'd rather die by car-crash lightning drowning Falling off a roof electric-chair heart-attack old age old age O Bomb They'd rather die by anything but you Death's finger is free-lance Not up to man whether you boom or not Death has long since distributed its categorical blue I sing thee Bomb Death's extravagance Death's jubilee Gem of Death's supremest blue The flyer will crash his death will differ with the climbor who'll fall to die by cobra is not to die by bad pork Some die by swamp some by sea and some by the bushy-haired man in the night O there are deaths like witches of Arc Scarey deaths like Boris Karloff...

giovedì 27 maggio 2010

Ancora sul cover-up marziano -7


Ho appena ricevuto una straordinaria prova fotografica da parte di un anonimo lettore, che credo valga la pena di mettere subito a vostra disposizione.
L'immagine, anche se di scarsa qualità, mostra abbastanza chiaramente i resti del rover marziano, con la sua singolare struttura triciclomorfa che tanto inquietò il Wells, al punto da trasformarla nei suoi vaneggiamenti in una terribile macchina da guerra.
Le figure minuscole che vi compaiono sopra sono membri del Genio militare di Sua Maestà, intenti ad ispezionare le caretteristiche del veicolo, in modo forse da trarne qualche insegnamento attraverso un tentativo di retroingegneria dagli esiti incerti.
Non si hanno notizie del destino successivo della macchina, che scomparve repentinamente dal luogo dell'atterraggio. Non escluderei che negli anni successivi, dopo una serie di tentativi di analisi senza risultati, essa possa essere stata smontata in qualche base segreta dell'esercito e quindi avviata per nave in America, con destinazione gli stabilimenti della Holt Manufacturing Company. Azienda in quel momento più avanzata al mondo nella costruzione di grandi mezzi meccanici semoventi, e l'unica a disporre di tecnici in grado di analizzarne i complessi meccanismi.
Dove comunque non risulta mai arrivata: è quindi probabile che le parti smontate abbiano costituito il misterioso carico segreto del Titanic, che più studiosi sostengono ancor oggi essere all'origine del tragico affondamento.

mercoledì 26 maggio 2010

Altre straordinarie notizie dai nostri eroi! - 6


La contrale di ascolto nell'Arizona ha ricevuto un nuovo messaggio dal colonnello Montague J. Brady, insieme con alcune immagini del pianeta che gettano ulteriore discredito sul cover-up messo in atto da decenni sulla reale natura di Marte.
L'antiquato ma ancor valido sistema di telegrafia consente infatti di trasmettere anche foto, codificate in segnali Morse e poi pazientemente riassemblate a terra dall'operatore.
Quella che ho messo in apertura del post mostra uno scorcio della città di Khandoria, appena raggiunta dai nostri dopo tre giorni di marcia a dorso di mulo lungo la sponda del Gran Canale. Aurore Monti-Smith e il colonnnello Brady vi compaiono abbigliati nei pittoreschi costumi locali, in un momento di relax nella suite messa a loro disposizione dalle autorità della città.
Montague ha già avuto una serie di proficui incontri con l'elite scientifica e politica del luogo, da cui sono emersi una serie di sconcertanti particolari.
Sembra infatti che già nel 1898 i marziani compirono un primo tentativo di raggiungere la terra con un dispositivo per certi versi simile all'aeroproietto di Monti: una nave cosmica spinta non dal metano, gas inesistente sul pianeta, ma dal bombastenio, minerale ad alta concentrazione di zolfo e carbonio dalle caratteristiche esplosive molto marcate.
Quella prima spedizione prese terra nelle vicinanze della città di Londra, ma l'impresa venne frustrata da un penoso equivoco culturale intercorso tra l'equipaggio appena sbarcato e un indigeno casualmente presente sul posto.
Questi, un cazzone di inglese vittoriano, un certo H.G. Wells, fraintese in modo grottesco la natura del grosso rover triciclo che i marziani avevano portato con loro allo scopo di esplorare il terreno e in preda al panico si precipitò a dare l'allarme presso un reggimento d'artiglieria acquartierato nella zona per esercitazioni.
L'ufficiale comandante, già al suo settimo gin-tonic della mattinata, ordinò immediatamente di cannoneggiare gli pseudoaggressori. Purtroppo le coordinate di tiro, elaborate in fretta e furia tra i fumi dell'alcol e comunicate alle batterie per mezzo di sbandieratori egualmente avvinazzati, si rivelarono talmente imprecise da causare la distruzione di numerosi villaggi nella zona intorno, oltre all'affondamento di un'ignara corvetta di Sua Maestà che si trovava a transitare casualmente a poche miglia dalla costa.
Mentre la delegazione marziana riprendeva il volo, sdegnata da una sì incivile accoglienza, per giustificare in qualche modo i danni e le vittime causate da quella sconsiderata reazione le autorità militari non trovarono di meglio che stendere un fantasioso rapporto su una invasione aliena, in realtà mai avvenuta.
Rapporto che fu poi in seguito diffuso a bella posta dal Wells in forma di romanzo popolare, e che ha costituito da allora la base per un'insistita opera di disinformatzia che prosegue ancor oggi.
Amareggiato da quanto andava apprendendo, il colonnello Brady ha assicurato la propria personale solidarietà agli incolpevoli marziani, riconducendo la causa del tutto alla notoria arroganza delle plutocrazie, mai disposte ad ammettere i propri errori e pronte a qualunque sotterfugio pur di salvare la faccia.
Non contento di ciò ha poi messo a disposizione delle autorità della città la sua esperienza di trasvolatore e di combattente, per tentare di riscattare in qualche modo il buon nome terrestre e dimostrare come gli abitanti del nostro pianeta non siano assolutamente tutti uguali, anzi.
Ma su questo promette altri particolari in seguito.

martedì 25 maggio 2010

Commercial


E' arrivata in tutte le librerie (spero) una corposa antologia edita da Piemme: SEVEN - 21 storie di peccato e paura.
Ventuno autori di narrativa gialla, thriller, noir o come volete chiamarla si sono abbandonati a trattare tra i sette il loro vizio/peccato preferito: ne è venuta fuori una triplice architettura che si avvita nel nero dell'anima scendendo sempre più a fondo a ogni pagina.
Io per me ho scelto di narrare l'Accidia: forse il più incerto e aereo dei peccati, una specie di merletto veneziano in cui è il vuoto e l'assenza a determinare la forma, più che non il poco pieno della trama.
Una notte tormentata, un risveglio inatteso, e poi il crescendo del Male su per i monti della Tolfa.
Come fa a esserci il male sui monti della Tolfa, direte? Eppure è proprio così, se uno guarda bene...

lunedì 24 maggio 2010

Trivialliteratur - 2

Un altro elemento che a mio avviso occorre prendere in considerazione nella interminabile disfida tra letteratura alta e bassa è sicuramente il fattore tempo. E' proprio questo infatti che genera spesso una falsa percezione di ciò che è colto e popolare, ed è proprio lui a determinare lo scorrimento di singole opere dall'uno all'altro campo. Oggi nessuno considererebbe l'Iliade o l'Odissea esempi di letteratura popolare, alla stregua che so di un Ponson du Terrail o di un Norbert Jacques, né si sognerebbe di accostare la Divina Commedia alla Locomotiva di Guccini: eppure nella Grecia classica la letteratura alta era quella dei poemi eziologici, o le dissertazioni in versi sulla natura di Empedocle e Pitagora, mentre i cantari omerici o pesudo tali erano affidati agli artisti di strada del tempo, che li intonavano nelle case patrizie e poi nelle strade a scopo di puro intrattenimento. E infatti di quelle storie ne circolavano e decine, e quelle che sono arrivate fino a noi erano certo le più diffuse, ma non per questo necessariamente le migliori.
Persino la Commedia ai suoi tempi fu stimata "troppo popolare" per i palati fini, né Dante fu mai chiamato a insegnare in alcuna università. Diamo quindi tempo al tempo, mettiamoci in mezzo qualche millennio di travagli, un centinaio di guerre, la distruzione di archivi e biblioteche e ci sono ottime possibilità che nelle scuole del XXX secolo i fanciulli si addottrinino sulle vicende di Batman, se come è facile che sia la Critica della Ragion pura si smarrisse tra le pieghe degli eventi.
Da parte mia mi piacerebbe che si salvasse dalla castrofe Sway nella versione di Dean Martin, che accludo al post. Senza un motivo particolare, così solo per far rabbia ai parrucconi.

domenica 23 maggio 2010

Ultime notizie dallo spazio! - 5


Dopo alcuni giorni di silenzio, dovuti all'immensità dello spazio attraversato dall' aeroproietto, il telegrafo nel posto d'ascolto della Western Union nel deserto dell'Arizona ha ricominciato a ticchettare, comunicando al mondo la grande notizia: alle 12,15 del 22 maggio 2010, ora siderale, i nostri due ardimentosi hanno raggiunto Marte!
Dando fondo alle ultime riserve di metano, con una manovra spericolata appresa alla scuola delle Flying Tigers il colonnello Brady ha rivolto verso il pianeta i getti del propulsore, rallentando la velocità di caduta fino ad ammartare con perizia sulla sponda sinistra del Gran Canale, una meravigliosa opera di ingegneria che corre lungo tutta la superficie di Marte da nord a sud, convogliando verso le fertili ma aride praterie della zona equatoriale le fresche acque delle calotte polari.
Non appena i roventi gas di scarico si sono dissipati nella frizzante e leggera atmosfera marziana, aperto il portello e liberata la scaletta il colonnello ha cavallerescamente ceduto il passo alla sua compagna: Aurore Monti-Smith è stata quindi la prima terrestre a calcare le sabbie di Marte, imprimendo con grazia l'impronta del suo piedino calzato Prada alla base della scaletta. Un segno che, stante l'atmosfera rarefatta, resterà probailmente per secoli a rimarcare sia la memoria del glorioso evento che la superiorità del made in Italy in tutto il sistema solare.
Ha quindi preso possesso del pianeta in nome della Confederazione, piantandovi la bandiera con tanto di stars & bars ricamate dalle sue stesse mani, tra l'entusiamo di un gruppo di operai marziani di una vicina stazione di pompaggio, accorsi in massa attirati dal rombo dell'astronave. Dopo di lei è stato il turno del colonnello di pronunciare rapide ma solenni parole di circostanza, al cui termine Montague ha intonato con la sua voce possente Rawhide, canzone che contende a Dixie il titolo di inno della Confederazione, scatenando il delirio della piccola folla che lo ha subito acclamato come il miglior cantante country di ogni tempo.
Purtroppo il sistema di comunicazione ci impedisce di ricevere suoni da Marte: il mio amico americano mi ha comunque inviato una registrazione effettuata dal colonnello in occasione di uno dei numerosi rodei cui si dedicava nel tempo libero, che accludo al post per chi volesse farsi un'idea delle virtù canore dello stesso.
Dopo questa prima sobria cerimonia è subito partita una comunicazione dell'evento verso la città di Khandoria, la capitale del distretto che dista dalla stazione di pompaggio un centinaio di miglia marziane, e al momento i nostri si stanno muovendo in quella direzione, a dorso di una coppia di muli marziani messi a loro disposizione dalla generosità degli indigeni.
Prima però hanno smontato dall'aeroproietto il sistema telegrafico, che trasportano con loro allo scopo di inviare quanto prima alla terra ulteriori notizie della loro straordinaria avventura.

mercoledì 19 maggio 2010

Civiltà del luogo.


Discutevo con alcuni amici l'altro giorno, sui criteri da adottare in caso di trasferimenti in zone sconosciute.
Se devo prender casa in una nuova città, o anche soltanto in un quartiere diverso, come faccio a capire che cosa mi aspetta? C'è un termometro, un indicatore della civiltà cui far ricorso?
I pareri erano diversi, quasi tutti improntati a una certa saggezza economicista. C'era chi sosteneva di andare a guardare le file alla ASL locale, chi di verificare l'esistenza in loco di librerie, chi la pulizia delle strade, i rumori, la rete dei mezzi pubblici. Chi più cinico consigliava prima di attendarsi di controllare l'esistenza di accattoni, posteggiatori, manutengoli vari.
Un amico raffinato vinattiere consigliava di scansare come la peste strade infestate da kebaberie, lavanderie cinesi e internet point. Un altro più metafisico faceva riferimento a teatri e sale da concerto, musei.
Io al riguardo nutro una certezza assoluta: la civiltà di un popolo, e quindi del luogo dallo stesso abitato, è segnata dai negozi di giocattoli.
Non serve andare a scomodare Huizinga: l'amore per i giocattoli è quello che distingue l'uomo dalla belva. Diffidate di quei territori in cui non si apra almeno una vetrina piena di bambole, automobiline e Pinocchi. Là intorno circolano soltanto lupi.

giovedì 13 maggio 2010

Due parole su Emilio Salgari


Non credo esista un solo scrittore italiano di genere, che abbia appena oltrepassato la quarantina, che non sia in qualche modo in debito con Emilio Salgari.
E non parlo assolutamente di temi rubacchiati al Nostro, o di stilemi strutturali o linguistici: anzi, a cercare in giro, sembrerebbe al contrario che da questo punto di vista l’opera del veronese sia vittima di una grande rimozione collettiva. Difficile trovare un riferimento a lui negli infiniti convegni, presentazioni, incontri che nella penisola abbondano intorno al tema del mistero, del giallo o dell’avventura. Persino della fantascienza, alla cui nascita in Italia Salgari dette pure un non piccolo contributo.
Questo sarà forse legato a una nostra costante debolezza esterofila, che anche in questo caso ci porta a magnificare tanta produzione narrativa ben più modesta, per il solo fatto di venire magari d’oltre oceano. E certo le trame del Nostro, affrontate con un piglio risorgimentale e una lingua spesso troppo condizionata dall’ibrido di una mélange tra verismo e dannunzianesimo, forse non offrono più molti spunti alla contemporaneità. No, il debito di cui parlo è qualcosa di più profondo, simile a quell’imprinting che Konrad Lorenz scoprì nelle sue ochette. Un segno che rimane dentro, e che trasforma un’esperienza in una costante del comportamento negli anni a venire.
È questo l’imprinting che Salgari ha realizzato in ciascuno di noi, la sua eredità più preziosa. È il desiderio di narrare. E, soprattutto, di narrare al di fuori di un qualunque schema giustificazionista. Salgari ci ha insegnato il piacere profondo dell’avventura come nuova e imprevista categoria dello spirito, oltre quelle canoniche: l’avventura esiste perché esiste la vita. Ed è un’eredità che ci portiamo dentro come un tesoro segreto, senza parlarne troppo in giro.
Perché in giro, appunto, non se ne parla poi molto. Ma a ben vedere non è poi così misteriosa la causa della scomparsa di Salgari dal nostro orizzonte degli eventi. Il problema è che la sua weltanshaung non è riconducibile a nessuna delle scuole di pensiero che si sono diviso il campo in Italia nel corso del 900.
Sicuramente non piaceva ai cattolici, con quel suo mondo disertato dal sacro, in cui la religione è presente solo nelle forme esotiche del fanatismo o della cecità bruta. Con i suoi eroi passionali, lacerati dai contrasti di un immanentismo spesso disperato, cinici, inclini alla violenza. In cui la solidarietà è presente solo nelle forme del bund germanico, il cameratismo d’armi che accetta la debolezza e la soccorre, ma solo all’interno della lotta e che respinge la viltà come un vulnus inaccettabile. Non piaceva per la lussuria dei suoi eroi, costante ed esaltata nonostante tenui sfumature di linguaggio, per l’ossessivo insistere sulla coppia amore e morte, svincolata da ogni istanza riproduttiva.
Non piaceva ai marxisti, con quel suo paternalismo superficiale nei confronti delle masse, appena temperato da un revanscismo anticoloniale di maniera, per di più a senso unico contro l’Impero inglese. Ma così, più una sorta di idiosincrasia personale che una convinzione ideologica. In Salgari non c’è la denuncia del colonialismo, solo quella di colonialisti cattivi. Ma è tutto il suo orrore invece che traspare violento, non appena in una sua storia appare uno squarcio di popoli non europei abbandonati a se stessi.
Non piaceva per la totale assenza dal suo panorama del mondo del lavoro, in ogni sua forma. Non piaceva per l’idea della lotta e della guerra, se non pure come nicciano come valore in sé, certamente come mezzo di soluzione dei conflitti internazionali, in chiaro spregio al pacifismo della nostra futura costituzione. Non piaceva soprattutto il suo totale disinteresse per l’idea stessa di classe e per l’abbandono fiducioso e disperato all’idea che ciascuno è fabbro del proprio destino. In Salgari raramente l’unione fa la forza: è la forza che semmai cementa l’unione.
Non piaceva ai liberali, per il suo totale disprezzo nei confronti dell’homo oeconomicus e dei valori che questa categoria reca con sé, per la feroce sottovalutazione dell’accoppiata sviluppo economico-sviluppo etico e sociale. Non piaceva per il suo amore per le differenze, che se fosse vissuto oggi lo avrebbe visto sicuramente tra i campioni del no-global più intemerato. C’è in Salgari una concezione delle cose assolutamente pre-industriale: il profitto è per lui non un fine ma un mezzo, anzi verrebbe da dire una sorta di meta puramente psicologica. Da perseguire con lo stesso spirito con cui il gentleman rincorre un record sportivo. Per lui il denaro è ancora tesoro, mai capitale. L’oro è brama e sfolgorio, mai strumento di alienazione.
Non piacque paradossalmente nemmeno alla pedagogia fascista, che pure avrebbe dovuto trovare nei suoi proto-balilla, muscolari e arditissimi, una linfa preziosa nella costruzione dell’uomo nuovo che il regime si riprometteva. Ma c’era l’anarchismo di fondo del Nostro, anche troppo evidente in quella sua continua esaltazione dell’azione individuale e nella glorificazione di quegli eserciti senza stato che sono i suoi tigrotti, i suoi pirati, i suoi regni di fantasia. Niente di più lontano dall’idea di stato etico di gentiliana memoria, troppo è diversa il popolo di Mompracem dalla comunità nazionale vagheggiata dal regime.
Il mondo di Salgari è un mondo di eroi disordinati. Di squadristi, al limite. Ma senza squadracce. Una maggiore sintonia si sarebbe potuta trovare nella sessualità solare e vorace dei suoi eroi, ma c’era il fatto degli accoppiamenti interrazziali, troppo scandalosi per poter essere accettati in un’Italia che si avviava al suo piccolo colonialismo. Che sarà pure stato straccione, come disse Churchill, ma che proprio per questo aveva semmai bisogno di distinzioni precise nella sua fase aurorale.
E certo non piaceva al mondo della scuola, sostanzialmente ancora dominato dal modello manzoniano declinato in tutte le possibili variazioni del bello scrivere. Salgari, con il suo stile ellittico, fluorescente ma anche affastellato, con la sua sintassi sbrigativa e il suo lessico post romantico lontano sia dalla flessuosità crepuscolare che dalla semplicità strapaesana, non era certo un modello da proporre ai giovani. I suoi non erano nemmeno fumetti, da ricondurre in qualche modo alla tranquillizzante palude della cultura di massa. Erano… erano un’altra cosa.
Insomma non piaceva a nessuno. Tranne che ai suoi lettori. Che in fondo erano un po’ come lui: inquieti, fantasiosi, scomodi. E quelli se lo sono portato appresso, anche senza saperlo. Prendete un qualunque giallo, o noir, o avventura scritta in Italia negli ultimi cinquanta anni. Non ci troverete né tigrotti, né corsari, né sovrane d’oriente. Ma appoggiate una pagina di uno qualunque di questi libri contro la finestra, e osservate la filigrana: come in una lanterna magica apparirà un tumulto di corpi e di emozioni, duelli e arrembaggi, passioni violente e disperazioni abissali. Soprattutto apparirà una chiave narrativa singolare, l’idea di una narrazione come punto di equilibrio tra istanza morale e nichilismo assoluto, che ritorna puntuale in tante opere della contemporaneità.
Forse un giorno ci libereremo di lui: scomparirà come la Tonante tra le nebbie di infiniti e inutili blog, arenata tra le secche di una fiction povera e ripetitiva. Un piccolo, triste crepuscolo degli dei, celebrato dal lugubre suono del ramsinga. Saremo tutti un po’ più poveri, e più infelici.

martedì 11 maggio 2010

Apollo Ray Gun.


Grazie a un inatteso colpo di fortuna sono appena entrato in possesso di un raro esemplare di Apollo, la cui assenza dalle mie panoplie arrecava un grave vulnus alla completezza della raccolta.

Costruita dalla Yonezewa come arma da fianco per le truppe coloniali, fu adottata tra molte polemiche dalla spedizione Bernulli nelle paludi arturiane. Sopravvive ormai in pochissimi esemplari, molto difficili da reperire anche sul mercato clandestino.

Questo a seguito dell'esito disgraziato dell'impresa: a oggi non esiste alcuna notizia precisa sul destino dell'infelice colonnello e dei suoi uomini, spariti tra i mefitici vapori del padule ormai da più di cinquanta anni. E trascinando nella rovina tutto il loro equipaggiamento.

L'arma non denuncia però affatto la sua età: caratterizzata da una soluzione all'avanguardia per i suoi tempi, la cella al trizio rotante, se la caverebbe egregiamente anche in un conflitto dei nostri giorni.

Unico suo limite un certo ritardo nella risposta tra l'azione sul grilletto e l'emissione del raggio fotonico, dovuto alla necessità che la cella rotante raggiunga il regime desiderato per l'emissione della carica atomica.
Anche il peso non indifferente la rende senz'altro più adatta come arma d'assedio, che non per un rapido corpo a corpo in qualche taverna d'astroporto. In quel caso il professionista preferirebbe senz'altro una più moderna Rocket Patrol, se non addirittura una Pyrotomic.

La Apollo resta comunque una splendida testimonianza della sua epoca, e dello spirito avventuroso di tanti pionieri che si immolarono nello spazio ignoto stringendola in pugno.

lunedì 10 maggio 2010

La potenza delle tenebre.


C'è una cosa che mi ha sempre colpito, riflettendo sulle vicende della storia umana: il grande potere fascinatorio delle convinzioni errate.

Colombo è convinto che il diametro della terra sia molto più corto della realtà, se ne va in cerca delle Isole Felici e dell'ancor più favoloso Cipango e per fortuna che c'è l'America di mezzo, altrimenti sarebbe finito tra gonnellini di banane e ukulele ad attendere il Bounty qualche secolo dopo.

Francisco de Coronado sente parlare delle sette magiche città di Cibola, si convince che esistano davvero e trascina una banda di desesperados per i peggiori deserti dell'America alla loro ricerca, perdendoseli per strada. Ponce de Leon, convinto che da qualche parte degli spaventosi acquitrini della Florida sgorghi la fontana della giovinezza, li percorre in lungo e in largo fino a rimediare una freccia fatale dai selvaggi locali, infastiditi da tanto scocciatore.

Francisco de Orellana, convinto che nella foresta amazzonica si celi la mitica El Dorado, ci si immerge senza ritegno, accoppando e torturando chiunque trovi per strada in cerca di dritte sulla mitica città lastricata d'oro. Braccato stretto da un altro pazzoide, tal Miguel de Aguirre, preso dalla stessa idea e che passerà alla storia soprattutto grazie allo splendido film di Herzog.

Tra tanti cercatori di meraviglie pare alla fine che i soli a cavare un ragno dal buco siano stati i soliti Nazi, col loro efficientismo teutonico: nel '45 un U-boat in fuga avrebbero perigliosamente risalito l'Orinoco, raggiungendo appunto l'El Dorado, almeno secondo quello che racconta un certo Karl Brugger, che disse di avere informazioni di prima mano al riguardo. Sto approfondendo la questione, e se scopro qualcosa di più preciso mi affretterò a relazionare.